L’emergenza COVID-19 in Italia ha costretto molte aziende a ricorrere al lavoro da remoto e così tantissimi lavoratori (siamo passati da 500.000 a più di 8 milioni di persone) sono “precipitati” nello smart working senza che ci fosse in tutte un’organizzazione del lavoro adeguata a monte.
Per la stragrande maggioranza di loro, infatti, non si tratta di lavoro agile come definito nella legge n. 81 del 2017, ma più realisticamente di “home working”: cioè trasferimento tra le mura domestiche del lavoro che fino a qualche giorno prima svolgevano in ufficio, con tutte le complicazioni che ciò può comportare.
La CGIL Nazionale insieme alla Fondazione Di Vittorio ha proposto un questionario on-line sull’argomento, a cui hanno risposto 6.170 persone: vi invitiamo a leggere i risultati di questa indagine (LEGGI) che mette in luce come i lavoratori stiano vivendo questo periodo drammatico.
E’ interessante scoprire che per le donne questa modalità di lavoro è in percentuale “più pesante, complicata, alienante e stressante”: perché, anche se lavorare da casa significa risparmiare tempo per gli spostamenti a favore degli impegni familiari, questi continuano a gravare principalmente sul genere femminile.
Da tenere anche presente la sensazione di “solitudine” e di paura di essere tagliati fuori dal contesto lavorativo, percepita da una parte degli intervistati.
Il 60% degli intervistati dichiara di essere favorevole a continuare l’esperienza di smart working anche dopo l’emergenza; per rendere ciò possibile è indispensabile però affrontare il problema dal punto di vista contrattuale, a partire dai contratti collettivi: è necessaria una normativa specifica per tutelare il lavoro agile alla stessa stregua del lavoro in presenza, fornendo nuovi modelli organizzativi che puntino alla compenetrazione delle due modalità e non alla loro contrapposizione.
Buona lettura!
Roma, 19 maggio 2020
La Segreteria Nazionale