Coordinamento Donne: relazione dell’Esecutivo

RELAZIONE INTRODUTTIVA

Come sapete, noi intendiamo il Coordinamento donne come parte integrante di un’organizzazione realmente plurale e pluralista in dialogo costante con la segreteria, un luogo intessuto di collaborazione sui temi di genere (differenziale retributivo e di carriera, orari, conciliazione, disconnessione ecc.).

La presenza qui con noi del neo segretario suggella questa impostazione.

A tutte noi, compagne del coordinamento, chiediamo di ricordare i nostri temi, approfondimenti e priorità in ogni contesto, in cui per ruolo ci trovano a operare (delegazioni trattanti, direttivi, commissioni ecc.), per costruire tutte insieme la nostra forza e per far contare di più la dimensione di genere, ancora oggi in molti contesti considerata marginale. A questo proposito ricordiamoci tutte di richiamare le nostre proposte per il rinnovo del contratto, peraltro già assunte in sede di Commissione Contrattuale.

Oggi vorremmo lasciare lo spazio per un’ampia discussione. Quindi ci limitiamo a lanciare brevemente alcune questioni, fuori e dentro il mondo del lavoro, lasciando poi ampio spazio al dibattito.

La realtà, nel nostro Paese e fuori, ci rassegna un mondo di diritti negati o contrastati: il diritto alla vita, alle migrazioni, alla procreazione, all’aborto, al testamento biologico, alla cittadinanza per i figli di immigrati, ai diritti per le coppie omosessuali, al lavoro, alla parità retributiva per le donne, a non essere uccise per un rifiuto, alla maternità, considerata ancora un discrimine pesante.

Negato il diritto alla vita e all’incolumità personale!

Il primo è il grande tema della violenza di genere e del diritto delle donne alla propria incolumità fisica e psicologica. L’art 1 della dichiarazione Onu sull’eliminazione della violenza contro le donne del 1993 recita: è “violenza contro le donne ogni atto di violenza fondata sul genere che provochi un danno o una sofferenza fisica, sessuale o psicologica per le donne, incluse le minacce, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà”.

Da quella data in poi, molte leggi sono state emanate:

  • 1996 “Norme contro la violenza sessuale”;
  • 2001 “Misure contro la violenza nelle relazioni familiari”;
  • 2009 reato di stalking;
  • 2013 ratifica della Convenzione di Istanbul, primo strumento internazionale giuridicamente vincolante sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica, in cui la violenza viene riconosciuta come una forma di discriminazione, una violazione dei diritti umani;
  • 2013 femminicidio;
  • 2015 congedo per le donne vittime di violenza di genere;
  • 2017 disegno di legge 2719, che tutela i figli rimasti orfani di un genitore a seguito di un crimine domestico.

Nel frattempo però succede che ogni due giorni una donna perde la vita per mano di un uomo col quale, quasi sempre, ha avuto una relazione.

E in Italia sono 7 milioni le donne che nel corso della loro vita sono state vittime di maltrattamenti, stalking, percosse. Ciò significa che la normativa, per quanto efficace possa essere, di per sé non è sufficiente. Prevenire la violenza vuol dire combattere le sue radici culturali, economiche e sociali e le sue cause. Per questo sono essenziali strategie politiche mirate all’educazione, alla sensibilizzazione, al riconoscimento e alla realizzazione di pari opportunità e di pari dignità in ogni ambito della vita pubblica e privata, oltre ad azioni di contrattazione.

Negato il diritto a un lavoro sicuro e dignitoso!

La violenza si insinua infatti anche nel mondo del lavoro.

Alla 107esima Conferenza mondiale sul lavoro di giugno 2018 il Direttore Generale dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, Guy Ryder, ha messo in guardia contro “le rinnovate tensioni in tutto il mondo” e, con riguardo alla violenza e alle molestie sul lavoro, ha sottolineato la necessità di lottare contro ogni forma di violenza e molestie, specificando che l’iniziativa sulle donne nei luoghi di lavoro dà un nuovo impulso per l’uguaglianza.

Un’indagine Istat ha stimato che nel biennio 2015/2016 circa 1 milione 400 mila donne hanno subito molestie fisiche o ricatti sessuali sul lavoro, da parte di un collega o del datore di lavoro. Con riferimento ai soli ricatti sessuali sul lavoro, si stima che, nel corso della vita, più di 1 milione di donne (1.170.000) ne sono state vittime, in fase di assunzione, per mantenere il posto o per ottenere una progressione di carriera. Nell’ 80,9% dei casi, la donna che subisce un ricatto sessuale non ne parla con nessuno sul posto di lavoro. I motivi della mancata denuncia sono legati alla scarsa gravità attribuita all’episodio, alla mancanza di fiducia nelle forze dell’ordine, alla scelta di rinunciare al posto per non subire il ricatto o all’essere riuscite a cavarsela da sole o con l’aiuto di familiari e, infine, alla paura di essere giudicate male.

Infatti, anche qui, la cultura diffusa non è d’aiuto, e prima ancora di giudicare i molestatori, spesso, si mette in discussione la credibilità delle molestate.

Con la legge di Bilancio 2018 sono state introdotte una serie di misure a tutela delle donne vittime di violenza e, più in generale, dei lavoratori che subiscono molestie sul lavoro, spesso sottoposti a discriminazioni, demansionamenti, trasferimenti o licenziamento. In particolare, la legge

• prevede che la lavoratrice (o il lavoratore) che agisce in giudizio, in caso di riconoscimento dell’illegittimità del licenziamento, abbia diritto a essere reintegrato nel posto di lavoro, al risarcimento del danno e al versamento dei contributi dovuti dal datore di lavoro;

• incentiva l’assunzione di donne vittime di violenza con la previsione di sgravi fiscali a favore di chi le assume con contratto a tempo indeterminato;

• vieta atteggiamenti discriminatori nei confronti di chi denuncia le molestie subite sul lavoro;

• prevede la nullità del licenziamento ritorsivo o discriminatorio del denunciante.

Nei settori del legno e dell’edilizia e delle poste e telecomunicazioni, sono stati firmati accordi nazionali in cui si è affermata l’inammissibilità delle molestie, il diritto a essere trattati con dignità e a denunciare comportamenti molesti, le modalità di monitoraggio e gestione dei casi di molestie, nonché la responsabilità del datore di lavoro che, a conoscenza del comportamento molesto, sia rimasto inerte nella sua rimozione (vedi sentenza Corte di Cassazione n.7097 del 22.3.18).

Nel nostro settore sono in corso incontri con ABI, per addivenire a un’intesa nazionale, ma su questo ci relazionerà sicuramente la Segretaria qui presente, Cinzia Ongaro che, per la Segreteria Nazionale, segue le trattative sul tema.

Negato il diritto all’aborto!

Il diritto all’aborto, garantito dalla 194, è inesigibile di fatto, a causa dell’elevato numero di medici obiettori di coscienza, che in alcune regioni d’Italia raggiunge il 90%.

All’atto dell’introduzione della legge, nel 1978, l’obiezione fu prevista per tutelare coloro che erano già in servizio. 40 anni dopo, però, il numero di obiezioni è enorme e un percorso emotivamente drammatico, che potrebbe richiedere supporto e assistenza e al quale andrebbe comunque garantita dignità e legalità, diventa un crudele percorso a ostacoli, che nega di fatto la libertà di scelta delle donne.

Negato il diritto di famiglia!

Il Governo, che ha varato le politiche di bilancio contro cui abbiamo appena manifestato, che idea ha dei figli, della famiglia dei diritti delle donne?!…

Ce lo racconta l’idea di incentivare le nascite attraverso la donazione di terreni…

Ce lo racconta il DDL Pillon, che immagina un diritto di famiglia stravolto da imposizioni autoritarie e rigidità impossibili, che impone la mediazione familiare a pagamento nei casi di separazioni con minori, persino quando la causa della separazione è la violenza, negando così di fatto il diritto alla sicurezza delle donne e dei bambini vittime di violenza domestica.

Ce lo racconta la bocciatura della proposta di stanziare 10 milioni di euro per sostenere le famiglie che si prendono cura dei bambini, orfani di madre per mano del partner. Contro questa bocciatura si è espressa persino una notissima femminista della prima ora come Mara Carfagna, che ha twittato “Quando trovi i soldi per tutto, compresa la detassazione dei massaggi negli hotel, la birra artigianale, l’assunzione dei fantomatici navigator e non li trovi per le famiglie affidatarie degli orfani di femminicidio fai una bastardata. Punto”.

Negato il diritto a non essere costrette a scegliere tra figli e lavoro!

Moltissime donne, ancora oggi, sono costrette a rinunciare al lavoro dopo la nascita di un figlio, come confermato dai dati resi noti dall’ispettorato del lavoro per il 2017 (30.672 dimissioni di lavoratrici madri, pari al 77% del totale). Dall’analisi delle motivazioni emerge l’elevata consistenza di cessazioni legate all’incompatibilità tra esigenze lavorative ed esigenze di cura (15.825 pari al 36% delle motivazioni). Questo avviene soprattutto per la mancanza di politiche e servizi pubblici che possano assistere le mamme lavoratrici. Quando le madri riescono a tenersi il lavoro, infatti, il prezzo che pagano in termini di tempo lavorato – retribuito e non – è enorme.

Così come estremamente controversa sembra essere la possibilità di riconoscere alle lavoratrici la facoltà di lavorare fino al parto, per poi usufruire del congedo obbligatorio nei cinque mesi successivi. Molte le voci contrarie, anche in campo medico, come quella della dottoressa Ciccarone “L’ultimo mese di gravidanza, sia dal punto di vista fisico che psicologico, è un momento delicato. È necessario che la donna si concentri su questo evento della sua vita, che peraltro è da riconoscere come unico e irripetibile, visti i bassissimi livelli di natalità in Italia”. Dall’altro lato, sappiamo che questa misura va ad allargare una previsione – che già c’era – di flessibilità di uno dei due mesi di astensione pre-parto, che dovrebbe connotarsi come volontaria.

La libertà di scelta delle donne così è davvero garantita?

Negato il diritto alla parità salariale e di carriera!

Secondo l’Inca Cgil, che è osservatorio per le politiche sociali in Europa, la quota di donne che lavorano è cresciuta incessantemente in Europa negli ultimi anni, e il livello d’istruzione delle donne è superiore a quello degli uomini.
Ciononostante, la maggior parte delle donne sono ancora escluse dai vertici della vita sociale, economica e politica. La presenza di donne dirigenti nelle imprese è ferma al 33%, mentre progredisce assai lentamente in campo politico. La differenza media di retribuzione tra uomini e donne si è stabilmente assestata sul 15% dal 2003, negando di fatto il diritto alla parità retributiva.

LA PARITA’ PER ABI

Una panoramica aggiornata dell’anno appena trascorso, la troviamo nel Rapporto 2018 sul mercato del lavoro nell’industria finanziaria elaborato da ABI.

L’associazione datoriale esprime un’evidente soddisfazione per il dato dell’occupazione femminile nel settore, che nel 2018 è cresciuta dello 0,7% portando le donne al 45,9% del totale.
Se allunghiamo lo sguardo, vediamo che dal 1997 al 2017, la presenza delle donne nel settore è aumentata di quasi il 15% (la presenza femminile più alta – pari al 47,2% – si registra nei primi 5 gruppi bancari).
Nel corso di questi 20 anni la differenza di occupazione tra i 2 generi si è ridotta di quasi il 30% (passando dal 37,8% all’ 8,2%).

A fronte di questo trend positivo, dobbiamo tuttavia evidenziare come permanga un forte divario nelle carriere. Nel corso del 2017 un uomo su 2 ha ricoperto il ruolo di quadro direttivo (pari al 50,2%); al contrario le donne quadro direttivo sono meno di una su 3 (31,2%).
I dirigenti di banca sono il 3,4%, contro allo 0,7% delle dirigenti, quindi nemmeno una donna su 100 arriva a ricoprire il ruolo di dirigente!… Nel settore possiamo addirittura vantare una dirigente ogni 5!..

Rispetto all’anno precedente l’incremento della quota di dirigenti è di 0,1 punti percentuali senza distinzioni di genere, senza produrre quindi un’inversione del gap. Nell’arco di 20 anni (1997-2017) tuttavia la presenza di donne dirigenti sarebbe cresciuta di 10 volte, mentre quella degli uomini è poco più che raddoppiata.

Anche per quanto riguarda i quadri direttivi, l’incremento nel ventennio è maggiore per le colleghe (+2,7 volte) di quanto non sia per i colleghi (+1,4 volte). La stessa ABI sottolinea tuttavia come la distribuzione di donne e uomini nell’area dei quadri direttivi non sia affatto omogenea, scontando un’evidente concentrazione della presenza femminile nel livello base dell’area (QD1).

Tutto questo va inoltre rapportato al fatto che, come dicevamo, la presenza femminile nel settore è fortemente aumentata a conferma che il cambiamento avviene ma con estrema lentezza. Il rapporto ABI indaga anche altri aspetti del lavoro femminile, che noi integreremo e confronteremo con le nostre elaborazioni dei rapporti pari opportunotèaro sul personale maschile e femminile. A oggi abbiamo raccolto i rapporti di quasi 50 aziende dell’intero settore e il lavoro è in progress.

LA PARITA’ NEL SINDACATO

Anche tra le organizzazioni sindacali – come dimostrato da un recente studio della CES – la presenza delle donne nei posti di responsabilità è ancora troppo debole, nonostante sia in crescita l’affiliazione delle donne ai sindacati di tutta Europa. Ed è anche per questo che come Esecutivo intendiamo raccogliere ed elaborare i dati post congresso e metterli a confronto con i precedenti in modo da monitorare la presenza delle donne ai vari livelli della nostra organizzazione nel tempo. Stiamo chiedendo anche la vostra collaborazione nella raccolta dei dati.

Negato il diritto alla disconnessione, alla conciliazione e alla salute!

La tecnologia e lo SMART WORKING, potenzialmente amici delle donne, ancora negano di fatto il diritto alla conciliazione e alla disconnessione! L’innovazione tecnologica, la digitalizzazione e l’impatto che queste hanno sul cambiamento nell’organizzazione del lavoro sono al centro della nostra discussione ormai da tempo. Nell’ottobre scorso abbiamo partecipato all’appuntamento annuale dell’Osservatorio del Politecnico di Milano, per fare il punto sull’avanzamento del fenomeno dello smart working e su questo uscirà una nostra nota a breve.

Si è partiti da una ridefinizione del termine che ne ha allargato la connotazione, definendo smart worker coloro che hanno flessibilità e autonomia nella scelta dell’orario e del luogo di lavoro e che sono dotati di strumenti digitali adatti a lavorare in mobilità, eventualmente anche all’esterno delle sedi aziendali. Secondo questa accezione “allargata” si contano in Italia circa 480.000 Smart Worker, con un aumento del 20% rispetto all’anno precedente. Sono ancora prevalentemente uomini (76%), tra i 38 e i 58 anni (50%) e residenti nel nord ovest del Paese (48%). Nelle grandi imprese la diffusione delle iniziative di Smart Working continua ad aumentare, diventando un requisito necessario a mantenere la competitività.

L’approvazione della legge sul lavoro agile ha portato un beneficio promozionale, togliendo alibi e incertezze in modo particolare per il settore pubblico.

Si è proseguito con una riflessione tutta di parte sul tema, spiegando che lo Smart Working è prima di tutto “un modo nuovo di stare nell’organizzazione, non si concede, non si fa quando si è a casa. È un accordo, un modo più maturo di relazione tra organizzazione e lavoratori”. Così si è spostato il focus sull’orientamento al risultato e al lavoro per obiettivi e sull’individualizzazione della contrattazione. Si è poi affermato che lo smart working apre la strada ad un rapporto individuale e che non solo il sistema di relazioni nel nostro Paese è in profonda crisi, ma lo sono anche la rappresentatività e il contratto collettivo, sostenendo che sia necessario andare verso l’individualizzazione dei diritti.

Inoltre si è sostenuto che Lo smart working, attraverso una prestazione indipendente consentirebbe il superamento della dicotomia autonomia e subordinazione e che è necessario abbandonare il concetto di contratto individuale e parlare di contratto personale per obiettivi condivisi.

Dal nostro punto di vista questi sono dei pericoli. Lo smart working infatti con la separazione della prestazione dal luogo e dai tempi di lavoro, la valorizzazione degli obiettivi e la condivisione del risultato impatta decisamente sull’organizzazione del lavoro. Per questa ragione, la CGIL, come è stato affermato in più occasioni, pensa che non sia possibile prescindere dal ruolo della contrattazione collettiva.

L’organizzazione del lavoro è una delle materie principali della contrattazione. Non ci sono diritti diversi per lavoratori e lavoratrici “digitali”. Guarda caso sono state molte le aziende in cui si sono raggiunti accordi collettivi per prevedere l’utilizzo dello smart working. Questi accordi, ante legem, ci confermano quanto sia importante la contrattazione che dovrà conoscere un’ampia diffusione affinché la modalità di lavoro agile possa essere applicata anche nelle aziende di piccole e medie dimensioni.

Noi pensiamo, come ha affermato anche Landini in più occasioni, che il diritto a poter contrattare preventivamente i progetti di cambiamento organizzativo sia un diritto contrattuale.

La disconnessione, dal nostro punto di vista è inoltre legata a filo doppio al tema conciliazione e riguarda tutti i lavoratori e le lavoratrici, non solo quelli smart working. Allo stesso modo il lavoro per obiettivi, così come è stato declinato nel convegno da noi richiamato, rischia di diventare, attraverso le pesanti sollecitazioni commerciali delle aziende, una minaccia alla salute delle lavoratrici e dei lavoratori del nostro settore (oltre che della clientela).

A tal proposito in Fisac stiamo lavorando per inserire il lavoro agile e il diritto alla disconnessione nella piattaforma contrattuale, anche con la nostra nota di approfondimento sulla disconnessione di prossima pubblicazione.

Come abbiamo visto quindi molti diritti civili, oggetto di anni di lotte, non possono più essere dati per scontati perché messi sistematicamente sotto attacco. Di fronte a questo scenario di diritti negati, disattesi o resi inesigibili, le donne devono continuare a reagire.

Lo sanno anche le donne di tutto il mondo. Collettivi guidati da donne, come NI UNA MENOS in America Latina, si sono trasformati in movimenti globali. In India e in Sudafrica migliaia di persone sono scese in piazza per protestare contro la violenza sessuale endemica. In Arabia Saudita e Iran, attiviste hanno rischiato l’arresto per essersi opposte al divieto di guidare o all’obbligo di portare il velo integrale o per poter entrare in uno stadio. In Argentina, Irlanda e Polonia si sono tenute importanti manifestazioni contro le leggi repressive in materia di aborto. Negli Stati Uniti, in Europa e in Giappone, milioni di persone si sono unite alla seconda “Marcia delle donne” guidata dal movimento #METOO per chiedere la fine della misoginia e degli abusi.

In questo contesto di forte ripresa dei movimenti femministi e di un nuovo protagonismo delle donne, che invade le piazze e le vie delle città di tutto il mondo, oltre ai social network, noi donne della CGIL, che da sempre siamo impegnate a contrattare condizioni più eque per le lavoratrici italiane, dobbiamo riconquistare lo spazio pubblico, per intrecciare le nostre riflessioni e le nostre lotte, laddove possibile, con le altre donne, dentro e fuori dai posti di lavoro, allargando le maglie della rete delle donne e promuovendo il sostegno e la solidarietà attiva.

Come ci ha ricordato la Segretaria Generale uscente, Susanna Camusso, in occasione del Congresso CGIL, le tante donne in lotta anche dentro la nostra organizzazione, che vivono sulla propria pelle discriminazioni e difficoltà, sanno che nulla è acquisito per sempre: […] un po’ di strada l’abbiamo già fatta. La fatica è che bisogna farlo quotidianamente, non va fatto solo in qualche occasione, è il punto di partenza.” E quindi compagne: AL LAVORO, ALLA LOTTA!

 

ESECUTIVO DONNE FISAC CGIL NAZIONALE


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