‘Io non ho paura, il coraggio di essere felici’: il report dell’evento – parte 2

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Insieme a te non ci sto più, guardo le nuvole lassù. Cercavo in te le tenerezze che non ho, la comprensione che non so trovare in questo mondo stupido. Quella persona non sei più, quella persona non sei tu. Finisce qua, chi se ne va, che male fa! E quando andrò, devi sorridermi se puoi, non sarà facile, ma sai si muore un po’ per poter vivere. Arrivederci, amore ciao, le nubi sono già più in là. Finisce qua, chi se ne va che male fa!

Insieme a te non ci sto più, composta da Paolo Conte e interpretata da Caterina Caselli nel 1968

Il 28 novembre 2017 la Fisac CGIL è stata impegnata a Roma in una riflessione sul contrasto alla violenza di genere, proposta e organizzata dall’Esecutivo Donne, dal titolo “IO NON HO PAURA. Il coraggio di essere felici”, che ha visto la partecipazione del Segretario Generale di categoria, Agostino Megale e di Loredana Taddei, Responsabile Politiche di Genere CGIL. Al centro di questa riflessione, due autorevoli ospiti a confronto: Alberto Leiss, giornalista, saggista ed esponente di Maschile Plurale, e Marina Valcarenghi, psicoanalista, psicoterapeuta e saggista. Il primo richiama gli uomini ad assumersi la responsabilità personale e collettiva della violenza sulle donne, la seconda ribadisce, invece, che devono essere le donne a farsi carico della propria liberazione, affrancandosi dal ruolo di vittime.

Ponendo questi due punti di vista a confronto, in un contraddittorio a distanza, o meglio in un mancato contraddittorio, l’intenzione delle donne dell’Esecutivo – espressa con chiarezza da Maria Ruggeri nella presentazione dell’iniziativa – non è tanto di contrapporre chi sostiene che la violenza sulle donne sia un problema degli uomini e chi sostiene il contrario, quanto di approfondire e comprendere le due posizioni, per far emergere come, alla fine, ciascuna delle due “metà del mondo” debba, giocoforza, lavorare su se stessa. L’invito alle compagne e ai compagni presenti è di ascoltare e raccogliere l’appello di entrambi gli ospiti intervenuti, in modo da far diventare il contrasto alla violenza di genere, una priorità di tutta l’organizzazione. L’Esecutivo Donne lavora, infatti, da tempo con l’obiettivo di sensibilizzare tutta la Fisac (donne e uomini) sul tema violenza di genere, per costruire, ad esempio, codici di condotta aziendali, per la prevenzione di molestie (fisiche, psicologie, verbali) nei nostri luoghi di lavoro, che in modo aprioristico vengono considerati esenti da questi fenomeni.

Il Segretario Generale Agostino Megale, portando agli ospiti e all’intera platea i saluti di tutta la Segreteria, ha affermato che “la violenza contro le donne è nella testa degli uomini, nel nostro pensiero e nel nostro agire” e ha riconosciuto che è un fenomeno trasversale, che prescinde dall’appartenenza e dal livello culturale degli uomini che la agiscono. Citando il saggio “Il lato oscuro degli uomini. La violenza maschile contro le donne: modelli culturali di intervento” (Ediesse, 2017), ha definito come necessario e urgente un cambiamento culturale profondo, che dobbiamo intraprendere tutti insieme. Quindi ha lanciato la proposta di un percorso condiviso tra la Segreteria e l’Esecutivo Donne Nazionali, che coinvolga i gruppi dirigenti della Fisac, uomini e donne insieme, e anche la Confederazione. Ha battezzato la sua proposta “Progetto Insieme”, immaginando di riuscire a coinvolgere in questo percorso una platea con una presenza di genere completamente ribaltata rispetto all’attuale, che è formata soprattutto da donne e pochissimo da uomini.

L’Esecutivo Donne ha raccolto la proposta del S.G. per una collaborazione fattiva con l’obiettivo di promuovere un cambiamento culturale all’interno dell’organizzazione, come pure l’impegno, espresso con pari determinazione, di affiancare al rinnovamento culturale un’azione contrattuale che ponga un argine alle disparità di carriera e salario nel settore.

Il primo degli ospiti ad intervenire è Alberto Leiss, che scrive su DeA (www.donnealtri.it) e sul Manifesto e ha pubblicato con Letizia Paolozzi “La paura degli uomini” (Il Saggiatore 2009) e “C’era una volta la Carta delle donne. Il Pci, il femminismo e la crisi della politica” (Biblink 2017). Lo abbiamo invitato a questo confronto pubblico, per capire le ragioni e il senso della sua appartenenza a Maschile Plurale. Si tratta di un’associazione costituita nel 2007, a seguito della pubblicazione di un Appello nazionale contro la violenza sulle donne, scritto da alcuni dei promotori nel settembre del 2006 e controfirmato in pochi mesi da un migliaio di altri uomini di ogni parte d’Italia. L’associazione è radicata in una rete di gruppi di sostegno locali, con contatti in tutte le regioni italiane ed è presente attivamente in Piemonte, Liguria, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna, Toscana, Lazio, Campania, Puglia e Sicilia. La sua attività è promuovere riflessioni e pratiche (incontri, eventi pubblici, formazione nelle scuole, collaborazione con centri antiviolenza) di ridefinizione dell’identità maschile, plurale e critica verso il modello patriarcale, anche in relazione positiva con il movimento delle donne.

Alberto ci ha raccontato la sua esperienza nella rete Maschile Plurale come rete di relazione tra uomini che vogliono affrontare il tema, riempire il lungo silenzio maschile sui comportamenti violenti agiti dagli uomini sulle donne. Ci ha parlato, anche, di come questa consapevolezza sulla violenza di genere sia nata, in lui come in altri uomini della rete, attraverso le relazioni affettive con donne “femministe”, che li hanno coinvolti e chiamati in causa sulla gravità di questo problema. Si è soffermato, poi, sul “salto simbolico” che sta avvenendo in questi ultimi anni intorno alla violenza di genere. Da parte delle donne c’è, infatti, una crescente presa di parola che si espande a macchia d’olio. Abbiamo potuto vederlo anche di recente, dal moltiplicarsi delle denunce di molestie subite in passato da parte sia di donne di spettacolo che di altri contesti meno esposti sul piano mediatico. Alberto ha anche sollevato un interrogativo sugli uomini che agiscono violenza, chiedendosi se si tratta di casi limite, isolati, di folli o malati per poi sottolineare che, comunque sia, è necessario che ogni uomo, in quanto tale, faccia un lavoro su di sé, evitando di trovare riparo e alibi nel suo sentirsi diverso dagli uomini che agiscono la violenza in modo diretto.

Marina Valcarenghi, è giornalista per La Repubblica, l’Espresso e il Manifesto, esercita la psicoanalisi in uno studio privato, ha fondato una scuola di psicoterapia con alcuni colleghi e svolge docenze in diverse facoltà in Italia e all’estero nonché un’intensa attività formativa sulla violenza di genere per diverse istituzioni e associazioni. Ha, inoltre, svolto per anni un’attività sperimentale di psicoterapia psicoanalitica all’interno degli istituti di pena, intervenendo in particolare nei casi di condannati per violenza sessuale (stupro e pedofilia). Citiamo solo alcuni dei testi della sua ampia attività di saggista, tra cui I manicomi criminali (Mazzotta, 1975), Nel nome del padre (Tranchida, 1982), Psicoanalisi e politica (Gentili, 1995), L’aggressività femminile (Mondadori, 2003), Senza te io non esisto – dialogo sulla dipendenza amorosa (Rizzoli, 2009), Mamma non farmi male – ombre della maternità (Mondadori, 2011), Il coraggio della felicità (Mondadori, 2013).

Nella sua lectio magistralis Marina ha ricordato che il dominio esercitato dall’uomo sulla donna è l’unica forma di oppressione che esiste da sempre, da quando ne abbiamo memoria e che l’affrancamento delle donne dal patriarcato è un processo iniziato in tempi relativamente recenti, all’inizio del secolo scorso. Dobbiamo, quindi, pensarla come una rivoluzione lenta, perché per millenni le donne hanno vissuto in posizione di subalternità rispetto agli uomini, sedimentando in modo “roccioso” i ruoli tradizionali. Uomini e donne hanno interiorizzato e cristallizzato modi di pensare, di agire, di vivere e anche di amare. La rivoluzione, che non è contro gli uomini ma contro il patriarcato, necessita di conoscerne le radici e la storia e, nel contempo, di riconoscere i passi avanti che si sono fatti, nella consapevolezza che si tratta di un percorso di emancipazione totalmente nuovo nella storia. Per affrontarlo, abbiamo bisogno di trovare sicurezza e fiducia in noi stesse, dobbiamo abbandonare comportamenti tradizionali considerati femminili, come, ad esempio, il vittimismo sacrificale, la lacrima facile, la protesta sterile, l’illusione che un’impresa, un’associazione, un’organizzazione si possano gestire come una famiglia.

Questo lungo e profondo lavoro su di sé comincia con il recupero dell’istinto di aggressività femminile. Noi donne siamo sempre state abituate all’idea che l’aggressività sia una cosa da maschi. L’aggressività, diversa dall’aggressione, che implica l’invasione della sfera altrui, è l’istinto naturale a difendere il proprio territorio, il proprio mondo. Se è un istinto di sopravvivenza, non ha senso che metà della specie umana ne sia priva. In realtà, le donne ne sono state private. Per combattere e vincere contro il patriarcato è necessario accettare la dimensione conflittuale, riconoscere lo scarto che esiste tra le nostre opinioni e le nostre abitudini e comportamenti e, soprattutto, abituarsi a “coltivare il proprio giardino” (i propri desideri) e non solo quello degli altri. Inoltre, è indispensabile coltivare la solidarietà di genere nel quotidiano, in ogni contesto.

Non possiamo delegare alle leggi, alle regole e ai codici la nostra liberazione ma dobbiamo “essere testarde nel coltivare il dialogo e il rapporto con gli uomini” perché è nella dialettica tra diversi che si cambia insieme. Dobbiamo quindi chiamare gli uomini a lottare con noi, ma questo implica avere fiducia in noi e nelle nostre capacità, a non chiuderci in noi stesse come se fossimo una specie protetta. “La giustizia e la libertà sono valori indivisibili, o sono per tutti o non sono per nessuno.”

Numerosi sono stati gli interventi di compagne, che hanno evidenziato le difficoltà delle lavoratrici sui posti di lavoro e anche gli ostacoli per noi donne a partecipare alla vita dell’organizzazione. Abbiamo, quindi, potuto confrontarci tra noi, ascoltando i suggerimenti dei nostri autorevoli ospiti e riconoscendo come violenti gesti e parole volti a sminuire i nostri interventi o il nostro lavoro, ma anche atteggiamenti come la supponenza, l’indifferenza, la provocazione, la denigrazione, che sperimentiamo quotidianamente nel nostro agire sindacale.

La giornata si è conclusa con l’intervento di Loredana Taddei, Responsabile Politiche di Genere della CGIL, che ci ha raccontato la sua esperienza del 25 novembre in Parlamento, all’iniziativa “In Quanto Donna“, organizzata dalla Presidente della Camera, Laura Boldrini. L’immagine della Camera invasa dalle donne è stata già di per sé un atto di alto valore simbolico, perché ha scardinato, con un solo colpo d’occhio, uno stereotipo ben radicato, che vede il potere politico retto da mani virili. Numerose le donne che hanno testimoniato le loro esperienze e i loro vissuti di violenza, animando la Camera con le loro storie, toccanti e piene di dignità, dimostrando una forza, un’energia e un coraggio, insoliti per il nostro Parlamento. Quest’immagine, che sembra tratta da un libro di fantapolitica, vorremmo tenerla bene a mente, per generare e custodire una consapevolezza nuova del nostro ruolo anche all’interno della nostra organizzazione.

Loredana, nel ricordare il numero delle donne vittime di femminicidio, pari a 116 nel 2016 e a 60 nei primi sei mesi dell’anno in corso, ha sottolineato il forte legame esistente tra la lotta contro la violenza di genere e l’assenza di parità e la conseguente necessità di dare piena attuazione, nei fatti, alla Convenzione di Istanbul. L’Europa, infatti, ci insegna che laddove ci sono migliori politiche di uguaglianza si registra una diminuzione della violenza di genere.

A questo numero enorme di vittime occorre aggiungere anche le vittime di violenza e molestie sui luoghi di lavoro, in costante aumento anche a causa della crescente precarietà e, quindi, della maggiore vulnerabilità delle lavoratrici. Insieme a Cisl e Uil è stato chiesto al Governo, con riferimento al “congedo per le donne vittime di violenza” di affrontare il tema dell’occupazione delle donne che intraprendono un percorso nei CAV, di ampliare la durata del congedo retribuito da 3 a 6 mesi e di estenderlo anche alle lavoratrici del comparto domestico. Il lavoro va fatto contemporaneamente sui più fronti. Da un lato, occorre rilanciare l’occupazione femminile, come previsto dal piano del lavoro della Cgil, sostenendola con investimenti adeguati e strutturali. Dall’altro, bisogna lavorare per ottenere che il rinnovo del Piano antiviolenza perda il carattere di straordinarietà, migliorare i LEA (livelli essenziali di assistenza), potenziare i consultori, introdurre nel codice penale il reato di molestia sessuale sul lavoro e costruire il rispetto partendo dalle scuole, perché “la violenza contro le donne è una sconfitta per tutti“. 

L’amore non è possesso, stiamo parlando di sangue e non di un oggetto, la dignità è come il rispetto, non ha prezzo. Come mio padre con me, a mio figlio insegnerò questo e gli dirò che non c’è una regola scritta, che in generale nei rapporti la strada non è mai dritta, ma che un uomo in quanto tale non si approfitta del silenzio di una donna a cui grida di stare ZITTA. Anzi, gli dirò che è da bastardi, che il coraggio guarda avanti e mascherare dietro alla veemenza la debolezza di non riuscire a migliorarsi è la prerogativa dei codardi.

La violenza sulle donne è un problema degli uomini: è un problema di alcuni uomini. Ne abbiamo fatte di parole, abbastanza da riempire cento libri e poi discuterne nella televisione, dimenticandoci che il mondo aveva il sogno di essere un posto migliore e siamo ancora qua, ancora qua senza più niente da dirci, ancora qua colpevoli figli.

Ensi, Uomini Contro, 2013

ESECUTIVO DONNE NAZIONALE

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