fonte: www.repubblica.it
I tre anni più bui della storia del settore hanno fatto sparire una decina di istituti e mandato in soffitta i vari “noccioli duri”. Non siamo alla fine del tunnel, ma si vede la luce. Ora va scelto un modello per vincere la sfida del Fintech
di Andrea Greco e Vittoria Puledda
Qualcosa rimane, mettendosi alle spalle i tre anni più bui della storia bancaria nazionale. Una decina di istituti sono scomparsi, portandosi via 61,5 miliardi di euro (conteggio per difetto, che non comprende crediti d’imposta, erogazioni mancate, costi sociali degli esuberi ed altri effetti collaterali). Un terzo dei miliardi a carico dei contribuenti, il resto tra azionisti, obbligazionisti e banche concorrenti, che per evitare contagi hanno preferito metter mano al portafoglio, con i conferimenti al ramo volontario del Fondo interbancario e al Fondo Atlante.
Il salasso collettivo ha creato nuove idiosincrasie nel paese, ma ha anche posto livelli più alti di qualità e consapevolezza finanziaria per operatori e risparmiatori- clienti, che hanno scoperto, spesso in un lampo, di poter perdere i soldi in banca. Il tentativo iniziale delle banche di tappare le prime falle vendendo azioni e bond subordinati allo sportello è stato un azzardo, tollerato da Consob e Banca d’Italia (forse, speravano di passare “‘a nuttata”); invece il bail-in e la vigilanza europea hanno scoperto il gioco, con gravi risonanze nell’arena politica: “Il misselling , per quanto in parte rimediato dai “ristori”, ha lasciato una ferita aperta”, nota Luca Erzegovesi, economista che insegna a Trento.
Le lezioni da prendere
Quali lezioni devono trarne i 115 gruppi che nel 2018 si spartiranno la torta (ancora ricca) del mercato italiano? “Mai sprecare una vera crisi”, diceva Rahm Emanuel, capo di gabinetto di Barack Obama, che facendone tesoro, ha riportato in 10 anni il settore finanziario Usa all’egemonia globale, dopo essere stati la fonte primaria del contagio con la crisi dei subprime. Cogliere le lezioni della crisi italiana 2015-2017 è il solo modo per ripartire, e capire gli approdi delle banche locali. Intanto, non siamo fuori dal tunnel, benché si veda più luce: per molti l’anno nuovo sarà di transizione, per smaltire altre esposizioni deteriorate e normalizzare i rischi verso “quota 10%” di Npl sull’attivo totale, come chiede la Bce. Vanno poi chiusi i lavori in corso su alcuni bilanci o modelli di gestione: vedi Carige, le Bcc, le popolari di Sondrio e Bari da riformare, o chi ha da digerire acquisizioni di marchi come Intesa Sanpaolo, Ubi, Bper, Credit Agricole Cariparma. In mezzo a tanti cantieri aperti sarà difficile vedere nuove crisi ma anche nuove integrazioni. Per le ultime, banchieri e investitori dovranno poi capire se la Bce conferma i ritmi di riduzione del cattivo credito, per i riflessi evidenti su redditività e capitale che ogni accelerazione può avere (la lettera di vigilanza inviata a Mps nel luglio 2016, che innescò la necessità di una importante ricapitalizzazione, è un caso di scuola).
L’invasività delle regole e dei regolatori è un altro fatale lascito della crisi, una sorta di genio della lampada che ora andrebbe fatto rientrare, almeno in certe forme parossistiche viste tra Siena, Vicenza, Roma. Qualche banchiere arriva a parlare apertamente del rischio di eterodirezione da Francoforte. “L’insegnamento cruciale è che nessun singolo istituto, né chi si occupa del settore, può stare lontano da chi scrive o fa applicare le regole bancarie “, dice Massimo Ferrari, direttore finanziario di Salini passato via Atlante per il cda di Popolare Vicenza. “La normativa attuale è talmente complessa che in Italia la conoscono appieno una decina di professionisti: nessuno dei quali siede nei ministeri o a Bruxelles”.
Sfide e ripicche
Disfide funzionariali e contese autorizzative nel dipanare i casi italiani sono costate miliardi tra capitalizzazione erosa, depositi evasi, operatività ferma. “C’è stata nelle banche in Italia in questi tre anni una rivoluzione accelerata che nessun altro in Occidente ha fatto, e ora il settore è più solido ed evoluto – racconta il presidente dell’Abi, Antonio Patuelli – la crisi è coincisa con l’avvio dell’unione bancaria europea, un momento di passaggio: le crisi di altri paesi, scoppiate prima, furono risolte dalle loro autorità nazionali con fondi pubblici e vecchie norme, più flessibili e consolidate”. Le difficoltà hanno anche cambiato i connotati dei soci bancari: i noccioli duri si sono dissolti, e tolte le significative eccezioni di Intesa Sanpaolo – guidata dalle Fondazioni – e Mps, dove lo Stato a giorni avrà fino al 70%, i fondi istituzionali esteri sono la prima forza in tutti i grandi istituti e ne presidiano le assemblee. Specchiandosi negli azionisti – gente che amministra risparmi per farli fruttare – i banchieri italiani s’imbarazzano notando la redditività media degli istituti nel 2017, che l’Abi stima in un 2,7% sul capitale. Solo che il capitale finanziario “costa” intorno al 10%: e chi lo ha chiesto ai soci, tanto dovrà ripagarlo (i tassi bassi almeno per tutto il 2018 non aiuteranno). Per questo sarà sempre più importante trovare il modo per far salire la redditività: la via maestra, nuovi tagli a parte, sarà una digitalizzazione sempre più spinta. Solo in un secondo momento si passerà probabilmente alla fase successiva del consolidamento. “Immagino che prima si procederà con l’efficientamento, l’enfasi sarà sulla riduzione dei costi e degli Npl – spiega Giuseppe Lusignani, vice presidente Prometeia – la ricetta in teoria è semplice: più servizi, meno costi, molta tecnologia. Nella pratica si tratta di inventare un nuovo modello di business e non è detto che tutte le banche saranno in grado di realizzarlo”.
Recuperare reddtività
Il vice direttore generale di Bankitalia Fabio Panetta, all’inaugurazione del Fintech District di Milano lo ha detto in modo ancor più brutale: “La sfida ora è riportare la redditività su livelli soddisfacenti, compito non facile. Con il ricorso alla tecnologia si potranno ridurre i costi e migliorare i servizi; al contempo la tecnologia abbatte le barriere all’ingresso e comprime i margini. Le banche dovranno in ogni caso fare investimenti ingenti in tecnologia: non tutte sopravvivranno”. Prima di investire miliardi in robot e intelligenza artificiale, varrà forse la pena scegliere il modello vincente per l’Italia finanziaria del domani. La glaciazione 2015-2017 lascia in circolazione molti animali diversi: il gigante nazionale Intesa e la paneuropea Unicredit, i colossi francesi “ospiti” e il Montepaschi di Stato, le ex popolari rinforzate e le tre holding Bcc, le ricche banche-salvadanaio e la frattaglia di Casse e popolari locali. Anche se la tempesta è quasi passata (c’è da completare il risanamento Carige, ad esempio), e il sistema ne esce più solido, sulla zattera non c’è posto per tutti.
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