La Normativa in materia di licenziamenti introdotta dalle leggi n. 92/2012 E N. 183/2014 e dal decreto legislativo n. 23/2015
1 – Premessa: dalla legge “Fornero” n.92/2012 alla legge “jobs act” n.183/2014, strutture e presupposti; l’equivoco sul significato del contratto a tutele crescenti.
a cura di Alberto Massaia.
Iniziamo con alcune osservazioni di carattere generale sulla legge n. 92/2012.
In tale legge si possono identificare quattro distinte tematiche: licenziamenti, contratti di lavoro atipici, assicurazione sociale per l’impiego, cassa integrazione; a queste si può aggiungere una tematica residuale, una sorta di “varie ed eventuali”.
L’art.1 della legge n. 92/2012 esprime quello che può identificarsi come la chiave politica dell’intera legge: un bilanciamento o uno scambio fra maggiori tutele nella fase d’ingresso del contratto di lavoro – vale a dire un temperamento della precarietà – ed un maggiore flessibilità nella fase di uscita del contratto di lavoro – vale a dire una maggiore facilità di licenziamento – scambio a cui si aggiunge una revisione degli ammortizzatori sociali.
Passiamo ora alla legge n. 183/2014.
Essa si compone di un unico articolo che contiene una serie di deleghe al governo, da esercitare per mezzo di decreti legislativi; così, dopo la citata legge delega sono entrati in vigore 8 decreti attuativi, fra cui il decreto legislativo n. 23/2015 che ha introdotto la nuova normativa sui licenziamenti.
Al di là degli eufemismi utilizzati dal legislatore, la legge del 2014 ritorna sui licenziamenti, sui contratti di lavoro atipici, sugli ammortizzatori sociali, riprendendo quindi i temi affrontati appena due anni prima della legge del 2012. Peraltro gli argomenti toccati dalla legge del 2014 sono molto più ampi di quelli affrontati dalla legge del 2012 ed il “pacchetto normativo” così creato è probabilmente quello più ampio emanato in forma unitaria nella materia del diritto del lavoro.
Vedremo come la legge n. 183/2014 ed il decreto legislativo n. 23/2015 abbiano dato un’ultima spinta alla facilità di licenziamento; anche in questa occasione – come già nel 2012 – la scelta politica è stata presentata in correlazione ad un’attenuazione del precariato ed alla creazione di nuovi posti di lavoro, almeno come proposito di facciata. Così, la tesi politica è stata nel senso di superare la ridda di contratti di lavoro precario e di passare ad una forma dominante di contratto a tempo indeterminato “a tutele crescenti”, che nonostante l’etichetta reticente – se non volutamente ingannevole – è nulla più che un contratto di lavoro che prevede il licenziamento ad nutum con qualche rarissima ipotesi di reintegra ed una tutela soltanto monetaria, crescente con l’anzianità. Questo per le assunzioni successive all’entrata in vigore del decreto attuativo. Il tutto fingendo di dimenticare che i contratti di lavoro atipici o precari si sono diffusi proprio perché consentivano una facile elusioni dei vincoli di stabilità del rapporto di lavoro a tempo indeterminato.
E’ appena il caso di ricordare come il modesto revirement tentato dalla legge n. 92/2012 per limitare il precariato sia stato del tutto annullato dalle successive leggi n. 99/2013 e n. 78/2014, che hanno introdotto – fra l’altro – i contratti di lavoro a tempo determinato senza causa, creando una situazione ancora più sfavorevole ai lavoratori rispetto a quella esistente prima della legge del 2012.
La realtà è che la disoccupazione resta assai elevata e i dati sono condizionati dal blocco delle uscite pensionistiche a partire dal 2011 e degli ingenti sgravi contributivi concessi per i nuovi assunti nel corso del 2015. Evidentemente gli imbarazzanti dati statistici non sono valsi a cambiare la linea politica e neppure le giustificazioni addotte per tentare di camuffare una vera controriforma a danno dei lavoratori.