Visco: “La nostra battaglia per le banche italiane, ma l’Europa non ha ascoltato”

10 giugno 2017

Il governatore della Banca d’Italia: «Vicenza e Veneto, fiducioso su un’intesa in linea con le regole, stabilità e salvaguardia del risparmio»

Articolo di Federico Fubini pubblicato da corriere.it/economia

Al Festival dell’Economia di Trento, sette giorni fa, il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco ha risposto alle domande del «Corriere della Sera», del «Corriere del Trentino» e di «Handelsblatt». Il colloquio che segue riprende ed estende quella conversazione.
Lei parla di risultati effimeri di certe politiche di flessibilità del lavoro. Perché?
«Mi riferisco a quella stagione dei primi anni del secolo in cui si sono iniziate a sperimentare forme di flessibilità. Sono stati sviluppi importanti, ma nel frattempo ci trovavamo in mezzo a cambiamenti straordinari: la globalizzazione e l’apertura dei mercati, il progresso tecnologico, l’unione monetaria che rendevano necessario guadagnare competitività con incrementi di produttività e non con aggiustamenti di cambio».
In teoria una fase del genere è esattamente quando servono anche contratti di lavoro più flessibili. Cosa non ha funzionato?
«Di fronte a questi cambiamenti le imprese avrebbero dovuto adeguarsi innovando l’organizzazione produttiva, adottando nuove tecnologie, investendo per crescere in dimensioni e qualità usando anche il margine di manovra sui contratti che veniva dalle leggi Treu o Biagi. Nessuna di queste forme flessibili è negativa di per sé, ma l’aumento dell’occupazione che deriva dalla maggiore flessibilità può risultare effimero se non è combinato con la capacità di fare impresa in modo innovativo. Il ritardo del sistema produttivo nell’adeguarsi ai cambiamenti ha contribuito ad amplificare l’impatto della crisi, al raddoppio della disoccupazione al 13%: le imprese si sono mantenute competitive non innovando ma sostituendo persone che andavano in pensione con compensi elevati con giovani magari più preparati e produttivi, ma pagati meno e con contratti precari. E quando c’è una crisi, sono loro i primi a perdere il lavoro».
Governatore, negli ultimi anni si contano almeno trenta dissesti bancari. La recessione e la mala gestione spiegano molto, ma lei ha detto: “Ci impegneremo di più”. Voleva dire che Banca d’Italia poteva vigilare meglio?
«No, la Vigilanza ha lavorato con il massimo impegno utilizzando tutti gli strumenti a disposizione. Ciò detto è ovviamente sempre possibile fare meglio e noi ci impegneremo ancor di più per la nostra parte. Ma il nostro impegno da solo non è sufficiente. Un elemento cruciale ha a che fare con percezione e capacità di tutti i risparmiatori di fare scelte finanziarie equilibrate e complesse con consapevolezza. Quanto ai dissesti, nei primi dieci anni del secolo ce ne sono stati molti più di trenta. Un centinaio, per lo meno. E la Banca d’Italia li ha gestiti riportando alcune di queste banche in bonis o liquidandole senza toccare i creditori, e pochi se ne sono accorti. Si sono potuti usare strumenti privati come il Fondo interbancario di tutela dei depositi o il Fondo di garanzia dei depositanti del credito cooperativo che intervenivano ripianando le perdite, mentre la parte buona delle banche in crisi veniva venduta a un soggetto aggregatore. Certo, oggi ci sono casi gravi e gli strumenti a disposizione delle autorità nazionali sono molto più limitati, inoltre tutto questo è avvenuto durante la peggiore crisi dell’economia italiana. Le imprese chiudevano, i prestiti deteriorati salivano».
A quel punto non era il caso di alzare la pressione della vigilanza sulle banche?
«È stato fatto. In alcune banche abbiamo riscontrato gestioni imprudenti che non rispondevano a logiche imprenditoriali, né alla sana e prudente gestione. A volte c’erano illeciti veri e propri. La Banca d’Italia ha individuato questi casi uno per uno. Abbiamo guardato i singoli crediti: a chi erano stati concessi, in che forme, da chi, con quali controlli di compliance (rispetto delle regole e procedure, ndr). La funzione di compliance è stata introdotta da noi nel 2007. Abbiamo sanzionato moltissimi amministratori bancari per difetti organizzativi, perché non si sono resi conto o non hanno chiesto conto o hanno lasciato fare. Quello che non abbiamo mai fatto è stato sanzionare una banca per reati penali, perché ovviamente non ne abbiamo titolo, non rientra tra le nostre responsabilità: se c’era sospetto di reati abbiamo trasmesso gli atti alla magistratura».
Potevate fare qualcosa diversamente?
«Il Direttorio della Banca d’Italia si riunisce ogni martedì, anche per tutto il giorno. Esaminiamo tutti i singoli casi istruiti dagli uffici, che abbiamo potenziato: abbiamo ispettori che operano con professionalità e diligenza, anche per conto della Banca centrale europea. La struttura di vigilanza produce dettagliati rapporti ispettivi che non possono essere diffusi perché c’è una norma del Testo unico bancario che lo proibisce. Tutte le nostre azioni vengono verbalizzate e posso assicurare che per ogni problema c’è stata una risposta pronta. Certo, uno degli aspetti nuovi è il modo di gestire le crisi in Europa, che è cambiato. Ne possiamo parlare».
Parliamone. Nell’ottobre 2012 il Fondo monetario internazionale pubblica un rapporto preoccupato sullo stato delle banche italiane. Sembrava un invito a mettere in piedi una “bad bank” prima che cambiassero le regole Ue contro gli aiuti di Stato. Perché lei all’epoca dissentì dal giudizio critico del Fmi?
«Non c’era dissenso. Il Rapporto di stabilità finanziaria della Banca d’Italia diceva esattamente le stesse cose, da prima. Conoscevamo i problemi del sistema bancario, ma c’erano tre questioni: lo stato dell’economia, lo stato delle finanze pubbliche e i conti delle banche. All’epoca lanciammo un ciclo di ispezioni in tutti i grandi istituti e a campione nei piccoli, dai quali ottenemmo con difficoltà — ma lo ottenemmo — un innalzamento rilevante delle svalutazioni dei crediti deteriorati. Ma da qui a dire che il sistema italiano già nel 2012 era in difficoltà tremenda ce ne corre. Infatti il programma di valutazione del sistema finanziario (FSAP) condotto dal Fondo nel 2013, un’analisi approfondita da me incoraggiata consentendo anche l’accesso a dati individuali sotto garanzie di rispetto del segreto d’ufficio, non giunse certo a una tale conclusione. Anzi a marzo 2013 arriva la dichiarazione della missione del Fmi che afferma che il sistema bancario era straordinariamente “resilient” — qualcosa più che resistente — alla luce della gravissima crisi dell’economia. Lo era per la sua capacità di aumentare il capitale e i cuscinetti di patrimonio, disse l’Fmi allora. Certo, poi avvertiva anche che ci sarebbero stati problemi se le condizioni economiche si fossero aggravate ancora. E questo è confermato dalla successiva analisi (il suddetto FSAP) del Fondo monetario, un esame approfondito del sistema finanziario italiano». È sicuro che all’epoca non ci furono sottovalutazioni? «Nessuna sottovalutazione. Ero molto preoccupato, tanto che nel 2013 feci riferimento alla possibilità, che formalizzai pubblicamente in seguito, di istituire una bad bank. Nel frattempo però arriva la Banking Communication della Commissione europea».
È il testo dell’agosto 2013 che per la prima volta impone di coinvolgere i risparmiatori che detengono obbligazioni subordinate nel caso di intervento pubblico nelle banche. Voi quando avete saputo che sarebbe arrivato?
«La Comunicazione chiedeva di coinvolgere gli obbligazionisti subordinati, applicando il cosiddetto burden sharing: prima degli aiuti pubblici bisogna che paghino non solo gli azionisti (e nei nostri interventi avevano sempre pagato), o gli amministratori (e noi li abbiamo mandati via), ma anche i creditori subordinati. La discussione sulla Comunicazione abbiamo iniziato a farla molto in fretta nel Comitato economico e finanziario, una costola dell’Ecofin a Bruxelles, nella primavera del 2013. Manifestammo le nostre perplessità chiaramente in quella sede ma non fummo ascoltati. Rendemmo poi pubblica la sostanza delle nostre riserve in un riquadro del rapporto sulla stabilità finanziaria del novembre di quell’anno. Nell’ambito dei lavori della BRRD, a marzo abbiamo mandato alla Commissione Ue, che lo ha diffuso a tutti i Paesi, un testo nel quale comunicavamo il nostro punto di vista. Primo: evitare l’applicazione retroattiva delle nuove norme ai titoli subordinati venduti in passato, al fine di impedire che il cambiamento successivo delle regole introducesse un rischio non previsto al momento della sottoscrizione. Secondo: ci voleva gradualità nell’introdurre le norme, che poi sarebbero state estese per giungere al bail-in, che potenzialmente arriva a coinvolgere nelle perdite anche gli obbligazionisti senior e i depositanti oltre i 100 mila euro. La proposta della Commissione sul Meccanismo unico di risoluzione, basato sulla BRRD, prevedeva il 2018 come data per l’entrata in vigore del bail-in. La data fu poi anticipata al 2016 nella riunione del Consiglio Ecofin di dicembre 2013». Senza anticipo al 2016 sarebbe cambiata la storia delle banche italiane di questi anni, non trova? «Sarebbe cambiata completamente, certo. La terza cosa che scrivemmo era che al fine di coinvolgere i risparmiatori nelle perdite in caso di dissesto le banche avrebbero dovuto emettere nuovi strumenti appositamente identificati, in altri termini abbiamo sempre sostenuto il bail-in per via contrattuale e sempre respinto il bail-in per via legale e applicato in modo retroattivo. Ma nella fretta della discussione o nella difficoltà di arrivare a un accordo sull’unione bancaria, questi tre punti non sono passati».
Che il bail-in sia stato anticipato di due anni al 2016 comporta che chi lo voleva, la Germania, abbia fatto concessioni per indurre chi non lo voleva, l’Italia, ad accettare. Vi avevano promesso che sarebbe scattata anche l’assicurazione europea sui depositi?
«È possibile, ma la Banca d’Italia non partecipa alle trattative tra i governi a Bruxelles. Può essere che ci fu questo impegno e poi non fu attuato. Successivamente fu sollevata un’altra questione che non era stata discussa come precondizione da risolvere per introdurre l’Unione bancaria: la presenza di titoli pubblici nei portafogli delle banche. Ma il punto rilevante è il burden sharing: è completamente nelle facoltà della Commissione Ue, che in questa materia ha un potere totale in base alle regole sulla concorrenza. Mi sono sempre chiesto come facesse Tercas a ledere la concorrenza europea. Così pure le quattro banche messe in risoluzione nel novembre 2015. È un problema interpretativo, di confronti fra poteri. Un altro punto fondamentale di queste prerogative della Commissione riguarda la bad bank: qual è la condizione essenziale da applicare nell’uso di risorse pubbliche in Paesi che non fanno parte di un’unione di bilancio? Io credo che un’unione di bilancio ci debba essere ma, finché questa manca, qual è il limite? In questo momento c’è un potere della Direzione generale della concorrenza di Bruxelles che è legittimo e ha obiettivi legittimi, ma bisognerebbe dimostrare che davvero gli indirizzi sin qui seguiti sono necessari per la tutela della concorrenza. E si dovrebbe dimostrare che quegli stessi indirizzi non mettono a rischio la stabilità del sistema finanziario: un bene primario della collettività che necessita di apposite politiche».
A proposito, cosa dobbiamo aspettarci per Veneto Banca e la Popolare di Vicenza?
«Le autorità italiane stanno lavorando con le molteplici parti interessate. Ho fiducia che arriveremo in tempi brevi a una soluzione in linea con le regole europee e con le esigenze di stabilità finanziaria e di salvaguardia del risparmio».

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