Donne: la sindrome di Medea

La sindrome di Medea

“Amiche, è fermo il mio disegno: i figli,
prima ch’io possa, uccidere, e lontano
fuggir da questa terra, e non concedere
che per l’indugio mio muoiano i figli
di piú nemica mano. è ch’essi muoiano
ferma necessità. Poiché bisogna,
io che li generai li ucciderò.
Su, dunque, àrmati, o cuor. Ché indugi? è vile
non far ciò che bisogna, anche se orribile.
Su, sciagurata mano mia, la spada,
stringi la spada, e muovi a questo truce
termin di vita, non esser codarda,
né dei figli pensar che d’ogni cosa
ti son piú cari, e che li desti a luce.
Questo sol giorno i figli tuoi dimentica,
e poscia piangi. Anche se tu li uccidi,
cari sono essi, e sciagurata io sono.”
(Medea, Euripide)

Sacrificio, perfezione, dedizione incondizionata, ancora oggi questo ci si aspetta dalle madri, gratificate e schiacciate, amorevoli ed oppresse in un ruolo vissuto quasi sempre in solitudine.
Avremmo bisogno di un dibattito sociale sulla maternità approfondito e sincero più che di giudizi sommari nei tribunali mediatici.
Buona lettura.
Esecutivo nazionale donne Fisac

LETTERA ALLA DIRETTORA DELL’HUFFINGTON POST LUCIA ANNUNZIATA
(Tavolo narrazione della violenza – NON UNA DI MENO)
Gentile Direttora Lucia Annunziata,
siamo rimaste letteralmente scioccate dal contenuto di un blog ospitato sulla sua testata. Il pezzo in questione, che è stato scritto da Deborah Dirani e si intitola “La festa della mamma di un’assassina”, si occupa del recente caso di infanticidio perpetrato da una neomamma minorenne. Con questa lettera le chiediamo di prendere pubblicamente le distanze dall’articolo dannoso in primis alle donne, pubblicando sull’HuffPost la replica e le ragioni di Non Una Di Meno.
In primo luogo, riteniamo che sia da irresponsabili utilizzare un registro simile, che finisce per scatenare la “canea”, la visceralità in chi legge, alimentando linciaggi mediatici di cui il web fornisce fin troppi esempi. Questo è tanto più vero quanto più si tratta di un caso che coinvolge una minorenne; un caso che tocca problemi culturali e sociali profondi, che si intrecciano con le vite e le tragedie reali di persone in carne ed ossa, generando ferite destinate a rimanere anche nel tessuto sociale. Se è comprensibile esprimere dolore, l’indignazione facile dovrebbe invece essere evitata da chi ha la responsabilità di fare informazione, una responsabilità che impone competenze oppure impone di documentarsi adeguatamente (e se nessuna delle due condizioni è soddisfatta, sarebbe meglio tacere). Per contribuire all’elaborazione collettiva di fatti che feriscono l’opinione pubblica come questo serve l’esercizio di coscienza, non l’invito alla forca.
In secondo luogo, la cronaca di Dirani appare ulteriormente inadeguata in considerazione della peculiarità del crimine in questione. L’ampia letteratura sull’infanticidio, infatti, prodotta entro cornici disciplinari diverse (dalla psicanalisi alla criminologia) ci ricorda che le circostanze in cui prendono corpo questi gesti sono assai più complesse della “generosa dose di ignoranza mescolata a una manciata di disumanità” o della natura “carognesca” che compaiono nella grossolana eziologia in cui si cimenta Dirani. Tali circostanze hanno a che vedere con la difficoltà delle condizioni materiali e psicologiche in cui si trova la madre, che, lo ricordiamo, in questo caso peraltro è una minore.
L’infanticidio costituisce materia talmente peculiare e controversa da meritare una disciplina ad hoc (l’art. 578 del Codice Penale); soprattutto, costituisce materia oscura e dolorosa, e non sarà superfluo fare presente che un’intera scuola di pensiero ritiene questo un crimine simile alle automutilazioni che le donne infliggono al loro stesso corpo (si veda, ad esempio, Motz, A. [2008], The Psychology of Female Violence: Crimes Against the Body, London, Routledge).
Dell’articolo desideriamo segnalare alcuni passaggi in particolare:
– il primo paragrafo, in cui la giornalista, a fronte di una dinamica, come detto, ancora tutta da chiarire, si arroga il diritto di discernere se il gesto della ragazza sia da imputare al “raptus di follia” (altra dicitura molto grossolana a cui, per fortuna, sono ormai sempre meno i giornalisti e le giornaliste che ricorrono), a “un attimo di cervello in tilt” oppure se sia invece stato lucidamente “tramato”
– nel secondo paragrafo, nel menzionare la madre della ragazza, che non si sarebbe accorta della gravidanza della figlia, Dirani si chiede (e la sua domanda non appare retorica ma frutto di genuina curiosità) come mai questa sedicenne, incinta contro il proprio volere, con ogni probabilità terrorizzata dal cambiamento fisico che stava vivendo e dal pensiero del dopo, abbia ritenuto di non confidare alla madre di essere incinta. La giornalista procede per ipotesi e si lancia in ricostruzioni delle dinamiche del fatto, passando in rassegna le altre opzioni disponibili alla ragazza per disfarsi della neonata senza ucciderla (opzioni, che, si intende, colpevolmente non ha scelto). Curiosamente, si esclude dal novero delle ipotesi quella, più intuitiva, che la ragazza sia stata presa dall’angoscia davanti al materializzarsi di un segreto e di una “colpa” inconfessabili e che lei era del tutto impreparata a gestire;
– nel paragrafo successivo si elencano quindi, in forma decisamente retorica, i “disturbi” che la sedicenne avrebbe voluto evitarsi uccidendo la neonata: il “sonno perduto”, il “seno svuotato”, “l’impazzimento e la depressione per un tardivo sussulto ormonale”, ecc., giungendo a concludere che la ragazza è meno di una bestia, difettandole persino quel misto di “istinto e animalità” che è garanzia della riproduzione della specie. E’ davvero difficile non notare la distorta visione del materno che emerge dallo scritto della giornalista, una visione nutrita da arcaiche nozioni di determinismo biologico, che vorrebbero le madri umane simili a mucche, capaci di stabilire immediatamente e automaticamente una relazione con la prole per il solo fatto di averla generata; è difficile non notare come sia proprio questa distorta visione e le aspettative, le pressioni che porta con sé a far “impazzire di depressione” molte madri.
– a conclusione dell’articolo originale rimasto visibile per due giorni e successivamente modificato si leggeva “quindi buona festa della mamma anche a te: che questa festa ti perseguiti ogni giorno di quel resti della tua povera vita.”, una minaccia, non un augurio di crescita, di responsabilizzazione e di comprensione del proprio gesto. Si auspica la “persecuzione” della ragazza. Sembra davvero troppo anche per un articolo di colore.
Non una volta nell’articolo, pur così prodigo di ammonimenti e “pagelle” verso la ragazza e la madre, si chiama in causa il ruolo di altri soggetti: quello del padre, ad esempio, o del resto della famiglia, o della società bigotta e (l’articolo stesso lo prova) misogina in cui viviamo. Un articolo fatto di ipotesi e anatemi non è un articolo ma un’accusa. Accusa che tra l’altro, contravviene anche al dovere di tutelare una donna minorenne, il cui delitto non è ancora passato in giudicato.
Cara Direttora, per concludere, ci auguriamo che ogni storia di donna, non una di meno, tanto meno quella di una infanticida minorenne, venga narrata non con la scure giudicante ma nel pieno rispetto della sua complessità.

Lettera alla direttora dell’Huffington Post Lucia Annunziata


http://www.huffingtonpost.it/deborah-dirani/la-festa-della-mamma-di-unassassina_a_22074866/

Photo by MCAD Library

Was this article helpful?
YesNo

    Questo articolo ti è stato utile No

    Pulsante per tornare all'inizio
    error: Content is protected !!