“Cogli uomini sfilarono le partigiane, in abiti maschili, e qui qualcuno tra la gente cominciò a mormorare – Ah, povera Italia!”, perché queste ragazze avevano delle facce e un’andatura che i cittadini presero tutti a strizzar l’occhio. I comandanti, che su questo punto non si facevano illusioni, alla vigilia della calata avevano dato ordine che le partigiane restassero assolutamente sulle colline, ma quelle li avevano mandati a farsi fottere e s’erano scaraventate in citta.”
(Beppe Fenoglio, “I ventitré giorni della città di Alba”)
Secondo le fonti ANPI, le donne partigiane combattenti furono almeno 35 mila, e 70 mila fecero parte dei Gruppi di difesa della Donna. 4653 di loro furono arrestate e torturate, oltre 2750 vennero deportate in Germania, 2812 fucilate o impiccate, 1070 caddero in combattimento, 19 vennero, nel dopoguerra, decorate con Medaglie d’oro al valor militare.
La storia – persino la storia delle rivoluzioni – tuttavia la scrivono gli uomini, e la storiografia della Resistenza non sfugge a questa regola. In un universo in cui permane la centralità del paradigma del maschio guerriero, che fa della lotta armata una modalità prettamente maschile, conservando archetipi culturali, che richiederanno altri decenni per essere anche solo scalfiti, le donne partigiane imbarazzano e destabilizzano anche coloro che, al loro fianco o con loro al proprio fianco, hanno combattuto per dar vita a qualcosa di radicalmente nuovo. È per questa ragione che, alla Liberazione, le donne furono escluse da molte delle sfilate partigiane nelle città liberate. Tra gli stessi compagni di lotta, le donne dovettero far fronte alle critiche nei confronti della loro scelta di abbandonare le case per impegnarsi direttamente nella guerra partigiana, che implicava convivenza, promiscuità, assenza di controllo familiare. La Resistenza cercò più spesso donne disposte a continuare a svolgere i compiti classici dell’assistenza e della cura: quindi, più che combattenti, si cercarono donne madri e spose, cuoche e infermiere. Alle donne, in sintesi, si dimostrò gratitudine e rispetto, ma non il riconoscimento politico o militare. Il grado più alto attribuito alle donne fu quello di maggiore, che riguardò comunque una piccola minoranza; quelli più diffusi, tenente e sottotenente.
Carla Capponi ricorda che nei Gap inizialmente i partigiani cercarono di non esporre le donne nei combattimenti diretti, magari per un malinteso senso di protezione, tenendole in ruoli di copertura e negando loro le armi. Lei stessa per armarsi rubò con destrezza un cinturone con una Beretta 9 ad un militare e si segnalò come combattente.
Il ruolo delle donne nella Resistenza non fu trascurabile né per numero né per rilevanza, non soltanto nella Resistenza civile, come staffette, informatrici, infermiere, ma anche come combattenti armate. Spesso da una busta nascosta in seno dipendeva la vita o la morte di centinaia di uomini e donne. Ci furono donne dirigenti politiche nei Comitati di Liberazione Nazionale, donne comandanti nelle formazioni partigiane, qualche distaccamento composto da sole donne, oltre 500 partigiane operarono come commissarie politiche in formazioni maschili. Eppure questi numeri non rendono giustizia alla reale partecipazione delle donne alla lotta di Liberazione. Da non dimenticare, inoltre, il ruolo svolto dalle numerose operaie (che sostituivano gli uomini in fabbrica negli anni di guerra) durante gli scioperi del 1943 e del 1944.
Nel ricordare l’anniversario della liberazione vogliamo esprimere un ringraziamento particolare alle donne staffette e partigiane, riconosciute dalla storia e a tutte le centinaia di donne invisibili stuprate, torturate, rinchiuse nelle carceri di tutta Italia e uccise, per aver combattuto il nazismo ed il fascismo.