La crisi economica e la resilienza delle donne

La crisi economica globale che da ormai otto anni ci attanaglia è iniziata negli Stati Uniti d’America nel 2007 in seguito al crollo del mercato immobiliare a causa dei mutui subprime e ha sconvolto l’andamento dell’economia mondiale assumendo un carattere globale e duraturo. L’economia mondiale all’epoca cresceva del 5% all’anno circa, i livelli di occupazione erano elevati e stabili, il denaro circolava in abbondanza e gli investimenti finanziari avevano rendimenti interessanti. La crisi, però, ha cambiato il mondo, facendo emergere i mali nascosti nell’apparente sviluppo senza limiti che l’ha preceduta e impattando direttamente sull’economia reale, accentuando differenze economiche e sociali già esistenti.

Prima dell’inizio della crisi la disoccupazione stava lentamente diminuendo ma, sin dai primi mesi del 2008, ha ricominciato a disegnare un trend in salita, con incrementi via via più consistenti. Secondo i dati Eurostat, sono ormai più di 26 milioni i disoccupati nell’Unione europea, di cui 19 milioni nella sola zona euro. Rispetto al 2015, il numero dei disoccupati nei 27 paesi UE è aumentato di 1,8 milioni. I tassi di disoccupazione più bassi sono stati registrati in Austria (4,8%), Germania (5,4%), Lussemburgo (5,5%) e Paesi Bassi (6, 2%). I più alti in Grecia (26,4%), Spagna (26,3%) e Portogallo (17,5%) mentre l’Italia si attesta ufficialmente al 11,6%. A fronte di questa enorme flessione nel mondo del lavoro il tasso di occupazione femminile è rimasto sostanzialmente stabile mentre quello maschile è diminuito. Le donne, quindi, sembrano aver resistito meglio degli uomini al ciclo recessivo, si parla, infatti, della cosiddetta resilienza delle donne. Con questo termine, mutuato dalla scienza dei materiali, in psicologia si connota la capacità delle persone di far fronte agli eventi stressanti o traumatici e di riorganizzare in maniera positiva la propria vita dinanzi alle difficoltà.

Dall’analisi delle dinamiche dell’occupazione femminile in Europa, si registra una progressiva riduzione della distanza tra il tasso di occupazione delle donne e quello degli uomini, che non è stata interrotta dall’arrivo e dal perdurare della crisi. Questo sembra confermare la tesi secondo la quale la
crisi avrebbe accelerato il peso delle donne nel mercato del lavoro, facendo diventare il lavoro femminile un elemento strutturale di produzione di reddito delle famiglie.

La capacità delle donne di fronteggiare meglio la crisi si può spiegare sulla base di diversi fattori.
Uno di questi è il cosiddetto effetto sostituzione legato al gender pay gap che porta, in periodi di crisi, a sostituire i lavoratori con le lavoratrici per diminuire il costo del lavoro. L’ultima indagine Istat ci fornisce, infatti, una fotografia dettagliata della struttura delle retribuzioni dei lavoratori dipendenti da cui si conferma che gli stipendi maschili sono superiori a quelli delle donne, a prescindere dall’esperienza lavorativa o dal settore di impiego. C’è da dire che il pay gap è un indice grezzo che non tiene conto delle caratteristiche individuali dei lavoratori come, per esempio, il ricorso al part-time, che potrebbe spiegare una parte del divario. In ogni caso, è di tutta evidenza che le risorse economiche complessive su cui le donne possono contare annualmente sono inferiori a quelle degli uomini. Nel 2010 la retribuzione media lorda è stata di 31.394 euro per i dipendenti maschi e 24.828 per le femminile (Istat, 2013).

L’altro fattore che spiega la resilienza delle donne è il cosiddetto effetto tampone, rappresentato dalla maggior presenza delle donne nel mercato del lavoro precario, in grado di sostenere il lavoro temporaneo nei momenti di crisi. Le aziende infatti, durante i periodi di crisi, tendono ad assumere comportamenti volti ad abbattere il costo del lavoro e, quindi, ricorrono alla componente femminile, giovanile e straniera per sostituire i lavoratori. Da qui il ricorso alle lavoratrici straniere che, però, presenta dinamiche molto diverse nel nostro Paese rispetto al resto dell’Europa. Infatti, nella media dei paesi europei, la crisi economica ha determinato un rallentamento della crescita delle donne immigrate occupate, in Italia, invece, il numero delle donne straniere occupate è aumentato costantemente, passando dalle poco più di 300.000 unità del 2004 (pari al 4% delle occupate ) a oltre 1 milione del 2014 (11% delle occupate).

Un terzo fattore sarebbe poi il forte aumento delle lavoratrici in part time involontario. In Italia, la quota di donne che lavora a tempo parziale non per propria scelta è fra le più alte d’Europa e nel 2013 coinvolge più della metà delle lavoratrici con contratto part time (59% mentre tra gli uomini la percentuale è ancora più alta e pari al 77% degli occupati a part time). Il part-time sembra essere passato, quindi, da strumento di conciliazione tra vita lavorativa e familiare (“riservato” in particolare alle donne) a strumento delle aziende per fronteggiare la crisi (esteso anche ai maschi). Nel 2014, in Italia, i lavoratori part-time erano 4 milioni, pari al 18,4% degli occupati (media Europea pari al 20,5%).

In aggiunta, l’attenzione si è spostata da un concetto di conciliazione basata sul sistema dei servizi, sui tempi della città e sull’equità sociale all’attivazione di modalità della prestazione lavorativa che consentano alla donne di occuparsi “anche” del lavoro di cura e dell’economia domestica.

Infine, c’è l’effetto segregazione, che ha avuto un ruolo importante nel limitare i danni della crisi economica sull’occupazione femminile, poiché le donne in Europa sono sotto-rappresentate in quei comparti maggiormente colpiti dalla recessione, come l’industria e le costruzioni, e sovra- rappresentate in settori solo lambiti dalla crisi come l’istruzione. La crisi ha, infatti, segnato le perdite maggiori nel settore delle costruzioni (-24% dal 2008 al 2014), dell’industria (-8,51%) e dell’agricoltura (- 5,0%).

Tuttavia, la segregazione settoriale di genere spiega le dinamiche dell’occupazione femminile solo in un limitato numero di settori, mentre negli altri non ha esercitato alcun peso e altre sono state le cause
dell’aumento del numero delle occupate o del contenimento della loro riduzione.

In generale, la crisi economica ha colpito maggiormente le fasce più deboli come quella dei giovani. Dall’analisi dei dati Istat dal 2004 a oggi, emerge un aumento della disoccupazione giovanile che passa dal 29,1% del 2011 al 40% del 2013. Tale dato è ancora più preoccupante se lo si legge insieme al dato relativo ai NEET, acronimo inglese di Not (engaged) in Education, Employment or Training, utilizzato in economia e in sociologia del lavoro per indicare i giovani fuoriusciti dai percorsi formativi e non impegnati in alcuna attività lavorativa. Nel 2014, in Italia sono circa 2,4 milioni i giovani al di fuori del circuito di formazione e che non lavorano. L’incidenza dei NEET è più elevata tra le donne (27,7 %), ma è per i ragazzi che la situazione è peggiorata maggiormente nell’ultimo decennio (donne dal 23,50% del 2004/2008 al 25,72% del 2009/2014; uomini dal 15,33% del 2004/2008 al 21,32% del 2009/2014).

Se è vero che l’occupazione femminile ha risposto alla crisi meglio di quella maschile e che si è verificata una progressiva riduzione del divario di genere è altrettanto vero, come dice Linda Laura Sabbadini, che la crisi ha aggravato i problemi strutturali dell’occupazione femminile soprattutto dal punto di vista della qualità del lavoro: è diminuita l’occupazione qualificata, sono aumentati i fenomeni di segregazione verticale e orizzontale, è cresciuto il part time solo nella componente involontaria e si è acutizzato il sottoutilizzo del capitale umano. I dati internazionali mostrano l’Italia in 111esima posizione su 145 paesi (dato al 2015) in termini di partecipazione e opportunità economica per le donne. Il tasso di occupazione femminile italiano è di 11 punti più basso di quello dell’Unione Europea (UE28). L’accesso all’educazione superiore, la partecipazione al mercato del lavoro, gli stipendi, la ridotta tutela della maternità, la mancanza di un sistema di welfare rendono l’Italia tra i paesi peggiori per una donna lavoratrice.

In questo solco interviene il “Piano straordinario per l’occupazione giovanile e femminile” elaborato dalla Cgil, che mira a creare direttamente lavoro riducendo la disoccupazione giovanile e femminile, intaccando il bacino degli inattivi e riducendo lo spreco di tutte le potenzialità del Paese. L’idea è creare nuova domanda, che genera nuova offerta, costruendo una politica che “risponda ai bisogni sociali insoddisfatti, riduca le differenze territoriali, qualifichi le attività pubbliche, crei nuove attività economiche anche di mercato. Una politica contro la disuguaglianza al centro della quale sta quella femminile e l’emergenza di quella giovanile “. La Cgil propone quindi, nelle parole di Susanna Camusso una “rottura culturale” capace di aumentare l’impiego soprattutto di giovani e donne come fattore fondamentale per la crescita del Paese attraverso l’utilizzo di fondi già esistenti ma finora utilizzati su versanti differenti (basti pensare alle spese del Governo – legate soprattutto alle mancate entrate – per la decontribuzione, per la riduzione strutturale dell’Irap, per la cancellazione della Tasi per le abitazioni di grande valore, per un totale di circa 34 miliardi di euro nel trienno 2015-2017).

In conclusione, possiamo dire che, a fronte di una straordinaria tenuta dell’occupazione femminile, “la probabilità che si rafforzi il ruolo strutturale e non più accessorio delle donne nel mercato del lavoro è strettamente correlata alle politiche che saranno attivate non solo per facilitare la conciliazione tra tempi di vita e di lavoro, ma per promuovere nelle imprese modelli organizzativi basati sulla flessibilità organizzativa, soprattutto negli orari di lavoro, che riguardano non solo le lavoratrici.

Esiste, infatti, una correlazione positiva fra flessibilità funzionale e aumento della produttività. Di conseguenza, è sempre più diffusa la consapevolezza che l’incremento dell’occupazione femminile rappresenti un fattore decisivo per lo sviluppo del Paese e soprattutto che una vision più matura nell’affrontare i problemi di conciliazione possa rappresentare un’opportunità per le imprese e non semplicemente un costo” (Progetto LaFemMe).

Settembre 2016
ESECUTIVO NAZIONALE DONNE

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