Attendiamo da mesi di entrare nel merito della riforma delle BCC e delle ricadute sui lavoratori e sugli assetti contrattuali del sistema di Credito cooperativo. Ci sono i contratti collettivi nazionali di lavoro da rinnovare e numerose criticità aziendali da gestire e che stiamo gestendo, con l’obiettivo preciso di salvaguardare i livelli occupazionali e rilanciare l’esperienza di credito cooperativo.
Che la riforma decisa dal Governo il 14 febbraio scorso e l’auto riforma proposta da Federcasse non recassero nemmeno la parvenza o il vincolo di piani strategici, affidandosi “ideologicamente” alla Holding cooperativa capogruppo S.p.A. e ai c.d. “patti di coesione” ci era apparso da tempo un limite sostanziale.
A proposito, quale sorte per le Federazioni locali e i livelli associativi ?
Ma siamo stati sempre disponibili a valutarne le opportunità in una prospettiva, possibilmente non lontana, di vere riforme della governance, di piani strategici, di contenuti verificabili dei c.d. patti di coesione, di chiarezza e confronto sulle ricadute, ecc.
Che da mesi si parli troppo e a vanvera di esuberi (3, 5, 10 mila ?!? ), a fronte di circa 37.000 addetti totali, ci è subito apparso un segnale sbagliato, certamente non di rilancio del credito cooperativo, bensì di pressione sulla Categoria e sulle Organizzazioni sindacali.
Tanto più che né il Governo né Federcasse danno segnali di farsi carico di provvedimenti finalizzati alla salvaguardia dei livelli occupazionali e di volere coinvolgere le Organizzazioni sindacali dei lavoratori nella predisposizione delle misure e delle regole propedeutiche alla gestione delle tappe delle ristrutturazioni successive all’approvazione del decreto. Federcasse, come è noto, ha continuato ostinatamente a chiedere la cancellazione tout court e/o la sospensione pro tempore di tutta una serie di importanti istituti contrattuali per finanziare, a carico dei soli lavoratori, non la riconversione, bensì l’uscita dal lavoro.
Che il Presidente del Consiglio miri a ridurre il numero delle banche italiane e privilegi le c.d. banche di investimento rispetto a quelle commerciali è noto da tempo e dovrebbe fare parte di una discussione vera su dove sta andando il nostro sistema creditizio e finanziario.
Che il Governo, nel varare il decreto legge n. 18, abbia deciso di favorire o di non ostacolare l’uscita o il non ingresso delle BCC con almeno 200 milioni di patrimonio netto dalla Holding cooperativa che dovrà essere costituita, è parimenti noto. Con un obolo una tantum del 20% all’erario, viene data la possibilità di trasformarsi in un società per azioni, portandosi dietro tutte le riserve indisponibili e indivisibili, frutto dell’accantonamento obbligatorio di almeno il 70 per cento degli utili netti, una parte dei quali da molti decenni in regime di esenzione fiscale.
Ora, stando a quanto si apprende dai media, le soluzioni individuate per sanare i contrasti e ricorrere tranquillamente al voto di fiducia costituirebbero una aggravante dei limiti della riforma, non la soluzione.
Il c.d. way out previsto dal decreto legge n. 18 non ci ha mai convinto, anche perché il più favorevole regime fiscale da sempre assicurato alla cooperativa mutualistica finirebbe per costituire ingiustificato arricchimento degli azionisti della nuova S.p.A., more solito a spese delle finanze pubbliche. Le BCC che intendessero diventare S.p.A. dovrebbero di per sé soddisfare i requisiti di capitale Cet1 richiesti dalla Banca d’Italia e dalla Bce per concedere l’autorizzazione all’attività, senza portarsi dietro le riserve indisponibili e indivisibili. In caso contrario, ci sarebbe da dubitare della scelta e della sostenibilità. Non si spaccino, quindi, il diritto al recesso e alla trasformazione in S.p.A. come parte della riforma delle BCC.
Possiamo condividere la necessità di prevedere un meccanismo di recesso anche dopo la creazione della holding e fissare una data alla quale verificare i requisiti patrimoniali per restare fuori.
Dai media apprendiamo anche che si starebbe valutando di far salve le riserve indivisibili, mantenendo al 20% la quota del patrimonio da versare all’erario per rimanere fuori dalla holding unica e trasformarsi in S.p.A., con l’escamotage di permettere alla Bcc di mantenere la forma cooperativa, conferendo l’attività bancaria alla nuova società per azioni. Questa ultima trovata fa il verso alla legge del 1990 che dette vita alle fondazioni bancarie, con la trasformazione in S.p.A. degli istituti di diritto pubblico e delle casse di risparmio e banche del monte e il conferimento dell’azienda bancaria.
Il decreto legge n. 18, è all’esame della Commissione Finanze della Camera dei Deputati in prima lettura e approderà in aula il 21 marzo. Il Governo potrebbe decidere di mettere la fiducia e vuole,quindi,. essere sicuro di avere i numeri.
Noi chiediamo norme efficaci per rafforzare le Banche di Credito cooperativo, non stratagemmi per superare la contingenza.
Il Coordinamento Nazionale FISAC CGIL Credito Cooperativo
Roma, 15 marzo 2016