Il Sole24Ore, 14 ottobre 2012, di Aldo Bonomi
C’erano tutti quelli che contano, alla presentazione a Roma di Uman Foundation. Saluto del Presidente del Consiglio e adesione, solo per citare le polarità apicali del nostro capitalismo, di Enel e Generali. L’iniziativa – problematica in tempi di crisi – si propone la diffusione di nuovi strumenti di finanza sociale e di connettere il nostro paese ad esperienze internazionali di capitalismo filantropico. Un’ipotesi di big society che non guarda solo alla devolution verso il basso della statualità, ma anche a esperienze di attori dei flussi globali come Warren Buffett, che ha devoluto 43 miliardi di dollari allo sviluppo umano e il suo competitor filantropico Bill Gates che ne ha offerti solo 40. Citati da Giovanna Melandri, animatrice dell’iniziativa, che ha in mente di collocare Uman nella rete globale dei fondi social impact, a cui Uman è associata, lanciata nel 2007 dalla Foundation Rockefeller che conta più di duecento fondi orientati a fare impresa per l’azione sociale nel mondo. Temi non da poco. Che interrogano la crisi e la devoluzione del welfare state, brutto segnale quello di aumentare la tassazione all’impresa sociale nell’ultima manovra, e la tanto di moda responsabilità sociale di impresa che non ha evitato il profitto irresponsabile tanto per restare all’oggi. Temi che hanno radici antiche nella scolastica medievale, con l’idea del dovere di “rendere conto” da parte dei banchieri e dei mercanti di allora e con la lezione di Max Weber sul tema “la proprietà obbliga” inserita nella costituzione della repubblica di Weimar. E la citazione storica non è scelta a caso. Vista dai miei microcosmi territoriali questa cultura della corporate responsability mi pare interroghi i venti gruppi apicali del capitalismo italico che competono nel capitalismo delle reti globali, dalle banche alle reti dell’energia alle transnazionali. È recente il dibattito sulla responsabilità della transnazionale Fiat rispetto al sistema paese. Al di sotto di questa cuspide stanno quasi 5mila medie imprese che reggono il capitalismo manifatturiero nazionale, multinazionali tascabili che sono leader di nicchie globali. Alla base, quasi 6 milioni di capitalisti molecolari le cui condizioni esistenziali vanno dal piccolo imprenditore capace di fare internazionalizzazione a quelli intrappolati dentro reti di subfornitura localizzate. Un magma fatto di artigiani di prima generazione, di seconda generazione, creativi, precari e il pulviscolo delle imprese sociali. Non siamo un capitalismo anglosassone ad alta specializzazione finanziaria, un capitalismo renano fatto di cogestione tra grande impresa, grande banca e grande sindacato, né un capitalismo anseatico capace di raggiungere livelli elevati di innovazione e coesione sociale attraverso un connubio forte tra welfare state e grandi corporation. Ci è estraneo anche il modello francese che vede al centro della strategia economica il ruolo dello stato attraverso i cosiddetti campioni europei. Quello italiano è invece un capitalismo di territorio. Un modello che tenta di trovare soluzioni in grado di coniugare le lunghe derive antropologiche della cultura di impresa legata al territorio con la simultaneità della globalizzazione. Un modello di sviluppo che fin dalla sua genesi ha fondato la sua legittimità sul coniugare sviluppo e mantenimento della coesione sociale nelle comunità locali. Oggi la crisi e la competizione internazionale lo mettono sotto stress. Disarticolando e interrogando la tradizionale responsabilità sociale dell’impresa che prendeva corpo nella coesione sociale territoriale. È dentro le difficoltà e le peculiarità di questo modello che il tema della responsabilità sociale va collocato. Il capitalismo di marca anglosassone, a cui Uman si ispira, per quanto potentemente alla ribalta dentro la dimensione dei flussi della globalizzazione, rappresenta soltanto uno dei modelli in gioco. Il paradosso e l’interesse del caso italiano in fondo è sempre stato quello di aver favorito, in parte convissuto con, processi di sviluppo economico e di impresa territorialmente diffusi. Dentro la globalizzazione ci si interroga sul fatto che i localismi produttivi e i distretti, spesso chiusi nella sola dimensione locale, non bastano più. Ciò vale anche per l’idea di responsabilità sociale nei confronti delle comunità sul cui territorio, l’impresa o ciò che resta del welfare operano. Qui, nella crisi di ruolo e di senso del fare impresa, si sviluppano esempi virtuosi di welfare aziendale per citare solo i casi di Ferrero, Barilla, Luxottica, Della Valle e di welfare di comunità per attraversare la crisi ove questi leader territoriali impostano nuove forme di relazioni industriali, di benefit per i lavoratori e di azioni a sostegno del territorio che mobilitano il tessuto dell’impresa sociale. Arrivano, come ha detto Renzo Rosso della Diesel al forum di Uman, a promuovere iniziative di microcredito a sostegno delle imprese a fronte di eventi tragici come il terremoto in Emilia. Il collegarsi a questa cultura agente e riflessiva delle multinazionali tascabili è una scommessa per Uman. Così come per collegarsi all’impresa sociale non basta avere una logica di sussidiarietà, finanziaria o statuale, dall’alto verso il basso. Occorre essere in grado di produrre una sussidiarietà dal basso che mobiliti verso le opportunità che vengono dall’alto bisogni e desideri di un sociale in grande sofferenza.