Sfruttatori e Sfruttati: il cinese in suv e quello in ciabatte

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di Manuele Marigolli, Cgil Toscana – A Prato nel rogo di una fabbrica dormitorio di confezioni sono morti sette lavoratori. Poco importa se erano cinesi, marocchini o italiani. Sono morti a causa di una condizione di sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Purtroppo nel nostro Paese è ancora possibile, a Prato come a Rosarno, che sfruttatori senza scrupoli si avvantaggino delle condizioni di bisogno di altri esseri umani. Qui le parole sfruttati e sfruttatori non sono un esercizio retorico ma una condizione oggettiva. La tragedia dimostra come le politiche repressive, se non accompagnate da politiche di integrazione vera, siano assolutamente insufficienti e inefficaci. Proviamo sommariamente a descrivere la situazione pratese. A Prato la comunità cinese regolare è di circa 16mila persone, e i clandestini vengono stimati in un numero pari ai regolari. I clandestini arrivano nel nostro paese con un regolare visto da turista, per poi rimanervi in modo irregolare. I flussi sono probabilmente organizzati da cosche malavitose. Le aziende cinesi iscritte alla camera di commercio sono quasi 5mila, la quasi totalità è nel settore dell’abbigliamento.
A chi giova il mantenimento di una condizione di illegalità diffusa? I rapporti di lavoro subordinato in realtà nascondono lavoro a cottimo; un tanto al pezzo, si scala il costo totale del lavoro, compresi i contributi e i costi indiretti, e si consegna una busta paga con un numero di ore in relazione al netto rimante. In primo, la condizione di sfruttamento è garantita dalla presenza di tanti clandestini, che fungono da esercito di riserva e impediscono ai lavoratori “regolari” di rivendicare alcun diritto, altrimenti si troverebbero senza lavoro e senza un lavoro anche loro si troverebbero successivamente nella condizione di clandestini. Questo grazie alla Bossi Fini. Per cui gli sfruttatori cinesi che girano con Suv dai vetri oscurati non sono interessati a nessun salto di qualità nelle lavorazioni che presupporrebbe trasparenza e riconoscimento del lavoro. Poco capitale fisso investito, poco rischio d’impresa e sfruttamento. Alle 5mila aziende cinesi corrispondono altrettanti affittuari che, in ragione della situazione, strappano affitti in molti casi più alti di quanto un mercato regolare consentirebbe. “Probabilmente” una parte di quegli affitti sfugge al fisco. Poi c’è chi si avvantaggia della situazione per puri scopi politici, addossando la responsabilità dei problemi della città ai “cinesi”, ancora una volta senza distinguere tra chi viaggia col Suv e chi sta in ciabatte.
La prima cosa da fare sarebbe quella di colpire gli interessi degli sfruttatori cinesi o italiani che siano; per quanto riguarda i cinesi, controllando i camion che ogni notte partono dal macrolotto per arrivare sui mercati di tutta Europa, sequestrando merce irregolare e colpendo nel punto strategico gli interessi economici nati da una attività che definire illegale è riduttivo. Per quanto riguarda gli affittuari vanno chiamati a rispondere in modo più stringente dell’uso dei loro immobili. Se un capannone che ha una destinazione urbanistica di tipo industriale viene parzialmente trasformato ad uso abitativo, devono scattare sanzioni non solo amministrative ma penali.
Inoltre, con un permesso di soggiorno a tempo indeterminato, si dovrebbe garantire un vantaggio (in tempi celeri, in modo meno burocratico) a quei lavoratori e anche ai loro familiari che denunciano una condizione di sfruttamento con un programma di protezione specifico. E quando si chiude un attività dovremmo preoccuparci dei lavoratori al fine di dimostrare in modo chiaro e netto che collaborare dà un vantaggio e crea le condizioni di un riscatto umano e sociale.
Si dovrebbe riordinare un sistema legislativo che crea vantaggio a chi emerge e superare l’impostazione tutta repressiva che ha contraddistinto l’impostazione legislativa dei governi di centro destra.
A chi accusa il sindacato di non avere fatto abbastanza, ricordo che circa due anni fa la Camera del Lavoro di Prato seguì una lavoratrice cinese in una causa di lavoro contro il “datore di lavoro” suo connazionale. E’ stato l’unico caso, nonostante i ripetuti tentativi di entrare in contatto con i lavoratori cinesi. Dopo aver vinto la vertenza la signora è tornata in Cina, non si sentiva sicura di continuare a vivere a Prato, e poi nessuno l’avrebbe più riassunta. Raccontò che il problema più grosso che impedisce di rivendicare un diritto è dato dal fatto che un lavoratore è continuamente sotto il ricatto di perdere il lavoro, e conseguentemente rischia di ritrovarsi in una condizione di clandestinità. Prendere coscienza dei problemi reali, superare i luoghi comuni e provare a rompere un muro di diffidenza reciproca: sono azioni che andrebbero immediatamente intraprese perché il vantaggio che ne deriverebbe per tutti sarebbe enorme. Tutto accompagnato da una forte iniziativa del sindacato che dovrebbe essere il collante di questo obiettivo.

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