Mentre scriviamo, le prime notizie sull’adesione allo sciopero unitario dei bancari sono davvero rilevanti. Le cifre che arrivano nelle sedi sindacali, suscettibili di conferma ma già molto attendibili, parlano di percentuali vicine al 90 per cento, sia riguardo il numero di lavoratori/trici in sciopero sia riguardo il numero dei punti operativi chiusi, e sono omogenee in tutto il Paese. La risposta della categoria, preceduta dalla mobilitazione su tutti i posti di lavoro e dalla sensibilizzazione dell’opinione pubblica e dei cittadini, sembra così quella migliore da dare a una controparte che ha confermato sinora una volontà miope e quasi incomprensibile di rappresentare un fattore di aggravamento della crisi economica in atto, invece che coprotagonista di un suo superamento. Questo sia a livello interno, con il disegno strategico – rivelato dalla disdetta del nostro contratto e dalle ragioni messe a supporto – di impoverire ulteriormente un segmento forte e significativo di “classe” media, quale i bancari (e le loro famiglie), sia a livello generale, con la riaffermazione autoreferenziale di posizioni che, prive di ogni autocritica, continuano a far mancare alla nostra economia quel sostegno urgente e vitale prodotto solo da corrette politiche creditizie. E’ vero, la crisi in atto dal 2008 è vasta ed è resa complessa da fattori interdipendenti che sono allo stesso tempo causa ed effetto di caduta del Pil e di restrizione del credito, ma che cosa hanno fatto nel frattempo i nostri banchieri per dare una mano a fuoriuscire dallo stallo e operare anche per il bene al Paese? Non molto, viene da dire. Per esempio hanno continuato ad attribuirsi megabonus, hanno continuato una politica di lesina del credito a chi non appartenga al cerchio magico delle parti correlate e delle relazioni (vulgo amici e amici degli amici). E’stato il governatore di Banca Italia Ignazio Visco a dichiarare nei giorni scorsi “atteggiamenti collusivi tra banche ed imprese” e il suo direttore generale Rossi a dire di non essere “sicuro che i prestiti fatti dalle banche vadano sempre ai migliori”, riecheggiati addirittura dal Presidente della Repubblica che ha espresso qualche preoccupazione simile. Significativo, per inciso, che a queste esternazioni non ci siano state reazioni di sorta da parte di nessun banchiere. E per il Mezzogiorno del Paese che cosa hanno fatto e che cosa hanno in mente di fare quelli che tra la classe dirigente dell’Italia dovrebbero essere esponenti di punta e affidabili facitori di destino migliore? Non una sola volta ricorre la parola sud (o meridione, o mezzogiorno) nel documento ABI del 16 settembre in cui si lamenta lo stato del settore e si illustrano le soluzioni, che riguardano ovviamente solo i lavoratori/trici e il ridimensionamento del loro status retributivo e normativo, nel trito convincimento capitalistico di ristrutturare il sistema abbassando il costo del lavoro con relativa depressione dei consumi dei ceti medio-bassi a vantaggio di quelli alti (che da soli non hanno mai fatto ripartire nessuna economia). Interessante anche notare quello che invece già hanno fatto i banchieri per il Sud (vedi anche più sotto la nota sul Rapporto Svimez 2103): dal 2008 al 2012 sono state chiuse oltre 1.500 filiali bancarie e la riduzione, benché generalizzata, per le banche grandi è derivata soprattutto da una stretta sul numero di sportelli nel Mezzogiorno, stretta solo attenuata dalla dinamica di segno positivo delle banche piccole che comunque non è stata sufficiente a evitare la riduzione complessiva nelle regioni meridionali, dove permane una rete di agenzie molto sottodimensionata rispetto al Centro-Nord (cfr. Lavoce.info 25 ott 2013).
giornale credito e mezzogiorno ott 2013 –
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