Con l’ufficializzazione della procedura di voluntary disclosure delle attività possedute all’estero in violazione delle disposizioni sul monitoraggio fiscale, chi non ha ritenuto di beneficiare dello scudo fiscale (con un costo variabile tra il 5,6 ed il 7% del valore delle attività rimpatriate), potrebbe ora regolarizzare la propria posizione anche se con oneri che difficilmente potrebbero essere inferiori al 15%.
Questo a motivo della rapida evoluzione della normativa nazionale ed internazionale in materia di evasione transfrontaliera.
All’epoca dello scudo fiscale era diffuso la consapevolezza del fatto che sarebbe stato difficile utilizzare in Italia le disponibilità detenute all’estero senza incorrere nel monitoraggio degli Intermediari Finanziari con il conseguente rischio di essere assoggettati ad indagine da parte del fisco, malgrado che a quei tempi l’Agenzia delle Entrate non avesse ancora cominciato ad incrociare i dati in Anagrafe con le dichiarazioni dei redditi. Coloro che non ritenevano aver bisogno di rimpatriare consistenti attività in tempi brevi (ad esempio per finanziare i propri investimenti in Italia o per garantirsi un buon tenore di vita) consideravano comunque che fino a quando avessero mantenuto i propri averi presso Intermediari Finanziari localizzati in Paesi non collaborativi, con molta difficoltà il fisco italiano avrebbe potuto individuarli.
I paradisi fiscali avevano già quasi tutti firmato dichiarazioni con cui si impegnavano a garantire, dopo appositi trattati, un adeguato scambio di informazioni. Ma l’Italia non aveva ancora attivato alcun trattato in questa direzione.
Oggi 56 Stati del mondo hanno aderito alla convenzione multilaterale sull’assistenza amministrativa in materia fiscale del 1988 ( modificata nel 2010) e 16 delle Convenzioni stipulate dall’Italia contro le doppie imposizioni (di cui otto con Paesi a bassa fiscalità) prevedono un’efficace forma di scambio d’informazioni. A livello europeo, la collaborazione amministrativa in materia fiscale è stata rafforzata con la direttiva 2011/16/UE del 15 febbraio 2011 e l’assistenza in materia di riscossione con la direttiva 2010/24/UE. Italia , Spagna, Francia, Regno Unito e Germania stanno dando attuazione ad un Accordo Intergovernativo per migliorare la compliance fiscale (il FACTA), già applicata dagli Stati Uniti. Inoltre gli Uffici dell’Agenzia delle Entrate ed i Nuclei della Guardia di Finanza specializzati in materia hanno più poteri.
Questi sono, soprattutto poteri di accesso ai dati dei registri antiriciclaggio degli Intermediari Finanziari e degli altri Soggetti sottoposti a tali obblighi. Tra gli strumenti a disposizione vi è pure il collegamento con l’Ufficio indagini finanziarie (UIF) presso la Banca d’Italia, che a sua volta è collegata con i corrispondenti uffici esteri. Vi sono inoltre collegamenti con l’Autorità Giudiziaria che spesso è in grado essa stessa di collaborare con i colleghi esteri.
Ma ciò che ha modificato radicalmente l’approccio all’evasione internazionale è che il Gafi ha introdotto esplicitamente nelle proprie raccomandazioni la precisazione che anche i reati tributari, ovunque commessi, sono prodromici al riciclaggio. Ciò ha comportato un repentino cambiamento nel modo in cui le Banche di Stati in cui l’evasione non è reato affrontano il problema dei rapporti intestati a Soggetti residenti in Stati che invece conoscono il reato tributario.
Cosi, per esempio, in Svizzera alcune Banche stanno già chiedendo ai Clienti di documentare la regolarità fiscale delle attività detenute presso di loro e, in molti casi, hanno bloccato i conti a chi non l’ha dimostrata. Un approccio destinato ad essere seguito da altre Banche svizzere e poi da quelle di altri Stati in cui il Segreto bancario è ancora rilevante.
Nel tempo, sarà sempre più difficile e rischioso detenere all’estero attività non dichiarate.
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