Catturato dopo la fuga del 25 aprile il duce viene giustiziato tre giorni dopo da un commando partigiano su mandato del Comitato Nazionale di Liberazione Alta Italia. Un atto necessario – lo definisce il Cnlai – per permettere “al popolo italiano di iniziare una vita libera e normale”
Il 28 aprile 1945 intorno alle 4 del pomeriggio Benito Mussolini – catturato nei giorni precedenti dalla 52ma Brigata Garibaldi Luigi Clerici a Dongo, piccolo comune sulla costa nord-occidentale del lago di Como – e Claretta Petacci vengono uccisi da un commando partigiano di cui fanno certamente parte Walter Audisio (il colonnello Valerio, unico dei tre a disporre di un mandato ad operare da parte del Comitato Nazionale di Liberazione Alta Italia ed ufficialmente esecutore materiale della sentenza di morte), Aldo Lampredi (Guido) e Michele Moretti (Pietro). Walter Audisio racconterà:
Sull’auto lo feci sedere a destra la Petacci si mise a sinistra. Io presi posto sul parafango in faccia a lui. Non volevo perderlo di vista un solo istante. La macchina iniziò la discesa lentamente. Io solo conoscevo il luogo prescelto e non appena arrivammo presso il cancello ordinai l’alt. Dissi di aver udito dei rumori sospetti e mi mossi a guardare lungo la strada per accertarmi che nessuno venisse verso di noi. Quando mi volsi la faccia di Mussolini era cambiata: portava i segni della paura (…) Feci scendere Mussolini dalla macchina e gli dissi di portarsi tra il muro ed il pilastro del cancello. Obbedì docile come un canetto. Non credeva ancora di morire: non si rendeva conto della realtà. Gli uomini come lui temono sempre la realtà, preferiscono ignorarla (…). Improvvisamente cominciai a leggere il testo della sentenza di condanna a morte del criminale di guerra Mussolini Benito. Per ordine del Comando Generale del Corpo Volontario della Libertà sono incaricato di rendere giustizia al popolo italiano. Credo che Mussolini non abbia nemmeno capito quelle parole: guardava con gli occhi sbarrati il mitra che puntavo su di lui (…) Faccio scattare il grilletto ma i colpi non partono. Il mitra si era inceppato. Manovro l’otturatore, ritento il tiro ma l’arma non spara. Passo il mitra a Guido, impugno la pistola: anche la pistola si inceppa. Passo a Guido la rivoltella, afferro il mitra per la canna, aspettandomi, malgrado tutto, una qualunque reazione. Ogni uomo normale avrebbe pensato di difendersi ma Mussolini era al di sotto di ogni uomo normale e continuava a balbettare, a tremare, immobile con la bocca semiaperta e le braccia penzoloni. Chiamo a voce alta il Commissario della 52ma che viene di corsa a portarmi il suo Mas. Adesso gli sono di fronte, come prima: egli non si è mosso, continua il suo balbettio di invocazione. Vuol salvare solo quel grosso corpo tremante. E su quel corpo scarico cinque colpi. Il criminale si afflosciò sulle ginocchia, appoggiato al muro, con la testa reclinata sul petto. Non era ancora morto, gli tirai una seconda raffica di quattro colpi. La Petacci (ndr la condanna, eseguita senza plotone, non includeva Claretta Petacci), fuori di sé, stordita, si mosse confusamente, fu colpita e cadde di quarto a terra. Mussolini respirava ancora e gli diressi, sempre col Mas, un ultimo colpo al cuore. L’autopsia constatò più tardi che l’ultima pallottola gli aveva troncato netto l’aorta. Erano le 16.10 del 28 aprile 1945.
Il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia diramerà un comunicato in cui affermerà che “La fucilazione di Mussolini e complici, da esso ordinata, è la conclusione necessaria di una fase storica che lascia il nostro paese ancora coperto di macerie materiali e morali, è la conclusione di una lotta insurrezionale che segna per la Patria la premessa della rinascita e della ricostruzione. Il popolo italiano non potrebbe iniziare una vita libera e normale – che il fascismo per venti anni gli ha negato – se il Clnai non avesse tempestivamente dimostrato la sua ferrea decisione di saper fare suo un giudizio già pronunciato dalla storia”.