dal sito www.patriaindipendente.it
Il 25 aprile l’Anpi in tutta Italia deporrà un fiore nei luoghi dove le donne che operarono nella Resistenza vennero torturate o uccise dai nazifascisti e sotto le targhe delle vie a loro intitolate (troppo poche ancora). Perché finalmente si conosca e ri-conosca il valore del loro martirio. È il dovere della memoria oggi.
“Sono una donna, sono una madre, sono Irma, Livia, Cecilia, e Gabriella, Anna Maria, Ines, e Ancilla, Clorinda, Norma, Rita, Iris, Modesta, Maria Assunta, e ancora Irma, Virginia, e tutte le altre che hanno perduto la vita nella lotta di Resistenza”. Questo vorremmo sentir dire ad alta voce se fossimo in un altro tempo. Perché non ti arrendi e pretendi che quel debito di sangue venga onorato, perché senza quelle donne la Liberazione non sarebbe mai arrivata o quantomeno l’occupazione nazifascista avrebbe scandito ben più di venti mesi della Resistenza, da cui nacque la Costituzione, ed è il 75° dell’entrata in vigore, va ancora ricordato il prezzo pagato da madri, sorelle, figlie, spose, fidanzate, addirittura suore o semplicemente donne che scelsero da che parte stare.
Una scelta etica e politica, perché a differenza degli uomini non avevano dovuto darsi alla macchia per sottrarsi ai decreti Graziani. E la loro è stata una partecipazione concreta e fattiva, sentita e corposa. Lo dimostrano i numeri: 36 mila le donne riconosciute partigiane e patriote, 2.812 fucilate o impiccate, 1.070 morte in azione, 4.635 arrestate e torturate, 1.859 vittime di stupro, 2.750 deportate. Oltre alle 70mila che aderirono ai Gruppi di difesa della donna.
E come per i Caduti delle Fosse Ardeatine, le storie di quelle donne raccontano l’unità della lotta di Liberazione nella diversità di tradizioni politiche e nella differente condizione sociale e culturale: operaie, infermiere, contadine, studentesse, braccianti, impiegate, borghesi, rampolle della buona società. Se ognuna è stata portatrice di passione civile, coraggio, amore per la libertà, tutte sfidarono le nebbie del pensiero subite durante il fascismo. Consapevoli dei rischi, non esitarono, combattendo in battaglia e anche contro la paura.
Non è una novità assoluta l’odierno vuoto di memoria e gratitudine. Anche l’Italia del dopoguerra stentò a riconoscere ruolo ed eroismo di quelle donne: appena 19 le Medaglie d’Oro al Valor Militare attribuite, di cui 15 alla memoria, e solo 17 le Medaglie d’Argento, in una sorta di emarginazione dettata dal “paradigma del maschio guerriero”, una disparità riflessa nell’esiguo numero (rispetto ai componenti maschi) delle 21 Costituenti elette all’Assemblea che scrisse la nostra Carta.
Il modello era il soldato, ma non della guerra appena conclusa, che per la prima volta nella storia aveva coinvolto direttamente i civili, anche lontani dal fronte. Bensì ci si rifaceva a tipologie di conflitto superate. Nonostante la risposta in Africa orientale all’occupazione coloniale fascista e la guerra di Spagna avessero dimostrato l’utilità anche nella Resistenza italiana della guerriglia organizzata (dall’iberico “guerrilla”, appunto), evitando scontri campali e contando sull’appoggio della popolazione locale. Sulle donne soprattutto, in prima fila nella Resistenza civile.
Basti pensare alle staffette, ruolo non esclusivamente femminile, ma ricoperto in gran parte da ragazzine e giovani donne. In pochissime vennero riconosciute partigiane, qualifica attribuita dallo Stato secondo legge, attraverso apposite Commissioni, a cominciare dal decreto luogotenenziale dell’agosto 1944 che parificava ai militari chi avesse compiuto almeno tre azioni di guerra o di sabotaggio in un gruppo organizzato riconosciuto e in un arco temporale ben preciso, chi era stato incarcerato nei lager almeno tre mesi, o chi per sei si era occupato delle strutture logistiche delle brigate. Una parziale eccezione è rappresentata dal Friuli-Venezia Giulia, territorio dell’Adriatiche Kustenland, posta sotto diretta occupazione nazista. Ma di medaglie auree al valor militare alla memoria appena tre, a combattenti. Non mancò una durissima battaglia parlamentare portata avanti anche dall’Anpi per ampliare i parametri. “Senza le donne non ci sarebbe stata la Resistenza” amava ricordare il comandante Bulow, che di lotta al nazifascismo se ne intendeva.
A uno dei partigiani ancora in vita, Gastone Malaguti, allora giovanissimo combattente della 7ª Gap di Bologna, tra i protagonisti della battaglia di Porta Lame, si spezza ancora la voce quando ricorda Irma Bandiera, staffetta “promossa” combattente, una delle 15 decorate di MOVM alla Memoria: «L’ultima volta ho visto “Mimma”, o “Zia” come io la chiamavo affettuosamente, su un tavolo di marmo a medicina legale. L’hanno torturata per sette giorni e sette notti, ininterrottamente. I nostri comandanti ci chiedevano di resistere almeno 48 ore, il tempo strettamente necessario per trovare un’altra base. Mimma ha retto una settimana. Alla fine l’hanno portata davanti alla porta di casa: “hai l’ultima possibilità per dirci i nomi degli altri e rivedere i tuoi”. Non ha parlato, le hanno cavato gli occhi, poi l’hanno crivellata di colpi e lasciato il suo corpo per due giorni lì in strada, un monito a tutti noi partigiani». Era di famiglia benestante Irma, e morì a 29 anni massacrata da italianissimi fascisti.
Erano amiche le MOVM alla Memoria Ancilla Marighetto “Ora” e Clorinda Menguzzato “Veglia”, l’una classe 1927, l’altra poco più grande, mondina la prima, venditrice ambulante la seconda. Operarono tra il Trentino e il Veneto nella formazione garibaldina Gherlenda raggiungendo in montagna i fratelli. Morirono entrambe nel giro di quattro mesi. Veglia catturata, torturata e violentata non svelò né i nomi né il nascondiglio dei compagni. La fucilarono l’11 ottobre 1944, quattro giorni dopo avrebbe spento venti candeline. E nulla rivelò Ancilla, la più giovane delle decorate, che aveva appena compiuto 18 anni quando il 19 febbraio 1945 un capitano delle SS ordinò l’esecuzione.
A Gabriella Degli Esposti, di umilissime origini, madre di due bambine e in attesa del terzo figlio, tenente di una formazione partigiana, strapparono i seni e gli occhi, poi la fucilarono. Cecilia Deganutti, insegnante elementare e crocerossina, torturata a Udine in una via crucis tra le carceri di via Spalato e gli uffici SS di Trieste, riuscì a non pronunciare neppure un nome degli appartenenti alla brigata Osoppo. Fucilata il 4 aprile 1945. E non parlò neppure Ines Bedeschi. C’è una lapide a Conselice, località natale nel territorio di Ravenna, in Corso Garibaldi, scritta dalla partigiana e scrittrice Renata Viganò, che si conclude così: «Ma anche in un giorno di primavera che era fatica morire Ines Bedeschi non sentì la voglia di salvarsi col tradimento». Il corpo venne gettato nel Po.
Tradita proprio da una delazione la romagnola Iris Versari che si suicidò nel rifugio condiviso con i compagni partigiani per permettere la loro fuga. Già ferita a una gamba non voleva cadere nelle mani dell’occupante, perché sapeva a cosa sarebbe andata incontro. Il suo corpo fu appeso dimostrativamente una prima volta sotto i portici di Castrocaro Terme e successivamente a un lampione a Forlì, in piazza Saffi, di fronte a Palazzo Albertini dove durante il ventennio aveva sede il partito fascista.
Pur martirizzata dai nazisti, non ricevette una medaglia Teresa Mattei, un prodigio resistente oltre che la più giovane delle future Costituenti e l’ultima ad andarsene. La partigiana “Chicchi”, nata a Genova il 1° febbraio 1921, di cui in questo 2023 ricorre il decennale della morte, tra i fondatori dei Gap di Roma e Firenze, era stata arrestata, torturata e violentata a Perugia. Porterà per tutta la vita i segni delle torture: la frattura di mandibola e mascella destra, con perdita dei denti e lesioni permanenti ai reni. Eppure solo nel 1997, intervistata da Gianni Minà, racconterà supplizi e abusi.
Nessuna decorazione neppure per la veneziana Ida D’Este “Giovanna”, partigiana bianca, eletta poi in Parlamento negli anni 50 con la Dc. Prima di essere deportata a Bolzano era stata staffetta di collegamento tra il CLN regionale e quelli di Venezia, Padova, Vicenza, Rovigo e Belluno. Venne seviziata e umiliata dalla banda Carità. Anche la staffetta della “Mazzini” Noris Guizzo, nome di battaglia “Carmen”, condivise la stessa prigione, dove la resero sterile. E furono decine le donne imprigionate e torturate oltre che violate a Palazzo Giusti.
A ben leggere le biografie (potete trovarle sul sito dell’Anpi nazionale) quasi tutte le decorate alla memoria vennero catturate e uccise dai tedeschi. Sul sito però troverete anche le biografie di donne Cadute, spesso eredi di famiglie antifasciste colpite dalla repressione del regime, uccise da chi allora si gonfiava di parole quali “nazione”, “patria”, “italianità”, ritornate prepotenti nei discorsi di Meloni.
Maria Luisa Alessi, trentatreenne della 181ª brigata Morbiducci, arrestata dalle “patriottiche” camicie nere della Lidonnici e giustiziata a Cuneo sul piazzale della stazione insieme a quattro detenuti politici. Avevano fermato i treni e fatto scendere i passeggeri per assistere all’esecuzione, e lei era stata l’unica a non voler essere bendata. Si salvò dalla prima scarica di mitra: “Mirate meglio”, disse ai carnefici. Era una donna già madre di un bambino di un anno e mezzo Santina Riberi “Carla”, 17 anni, 76ª Garibaldi, una delle 12 che persero la vita nel Canavese. Catturata dai fascisti della Barbarigo, che nei giorni scorsi sono stati commemorati a Nettuno, provincia capitolina. Torturata per due giorni e uccisa all’alba dell’11 settembre 1944, a Ivrea, nel cortile della caserma Freguglia, il corpo gettato in una cava.
E in centinaia finirono nelle mani delle brigate nere, in caserme, ville Tristi, ville Koch e palazzi Carità. D’altronde proprio la violenza era stata elevata a risorsa identitaria durante i vent’anni della dittatura. Ma nel dopoguerra la maggior parte delle violenze efferate subite dalle partigiane per italianissima mano fascista vennero derubricate in tribunale a “offese all’onore e al pudore della donna”, spesso cancellate dall’amnistia e da assoluzioni o condanne minime, se non seppellite in centinaia di armadi della vergogna.
In altre parole, le Cadute, le deportate, le torturate sono state vittime due volte. Dei nazifascisti e di un attacco alla Resistenza che cominciò subito nel dopoguerra, quando i partigiani finivano in galera più dei fascisti.
Le scampate alla morte riusciranno a raccontare solo molto tempo dopo, non a caso a partire dagli anni 60, quando vedranno i fascisti rialzare la testa, e ancora negli anni 90, quando il revisionismo storico iniziò a tentare di mettere sullo stesso piano le ragioni della Resistenza e quelle dei “ragazzi di Salò”, costringendole a sentire che Mussolini aveva fatto anche cose buone. Un revisionismo divenuto clava politica per mettere in discussione i valori per cui avevano combattuto. Testimoniare diventò così un atto politico per rispondere alla rimozione di ciò che è stato il fascismo e i fascisti, e da “militanti della memoria”, come i sopravvissuti alla Shoah, si rivolsero soprattutto ai giovani. Per evitare che quel “terreno sdrucciolevole” condizionasse in peggio il presente e il futuro, per impedire l’erosione del patto antifascista, proseguita invece negli anni.
Per coloro che mai videro l’Italia libera, nei luoghi del martirio che avrebbero dovuto divenire sacri, spesso solo grazie alle Anpi, ai familiari, ai compagni di lotta è stata eretta una stele, apposta una lapide, altrimenti sarebbero rimaste fantasmi, confinate per sempre all’oblio. Ed è tuttora assurdamente ridotto il numero di strade, piazze, giardini, scuole, luoghi pubblici dedicati a quelle donne, spesso giovani e tutte bellissime, rese radiose da una forza talmente risoluta difficile da immaginare. Consultando Google maps, è sufficiente scriverne il nome per rendersene conto.
Un’azione di memoria più attiva che mai la compì decenni dopo Marisa Musu, una delle gappiste romane, MdAVM, lasciando in consegna ai posteri la volontà di apporre una targa per dieci donne uccise dai tedeschi il 7 aprile 1944, ree nei giorni della fame più dura di aver assaltato un forno, requisito per rifornire le truppe occupanti. Un desiderio testamentale realizzato tra via Ostiense e viale Marconi. Erano donne di popolo come Teresa Gullace, che ispirò Rossellini per la protagonista di Roma città aperta. Nata in Calabria e poi emigrata a Roma, è ricordata da una targa in viale Giulio Cesare, tra strade dove si inciampa di continuo nelle pietre della memoria. Sempre a Roma, in viale della Piramide Cestia, vicino Porta San Paolo, teatro della battaglia che diede il via alla Resistenza in terra italiana, combatterono a colpi di crocefisso, e morirono, anche delle suore.
Può oggi sorprendere il colpevole silenzio, se non le accuse, dell’attuale destra italiana al governo? Una destra totalmente estranea alle grandi famiglie politiche confluite nella Costituzione: liberale, cattolica, azionista, socialista, comunista.
Ecco perché il 25 Aprile, in tutta Italia, rappresentanti di sezioni e comitati provinciali Anpi deporranno una rosa nei luoghi del martirio o sotto le targhe delle vie che le ricordano, invitando tutta la comunità dei territori a partecipare.
Non è la prima volta che l’associazione dei partigiani celebra una delle principali ricorrenze civili del nostro Paese nel segno delle donne. Lo ha fatto tre anni fa per il 2 Giugno, nell’anno terribile della pandemia, portando una rosa sulle tombe delle Costituenti, ultime dimore spesso fino ad allora ignorate o sconosciute. Alcune, abbandonate, proprio per l’occasione sono state restaurate con il contributo di realtà civili o religiose locali, per esempio a Napoli. Nel 2021 è stata la volta della “staffetta della Liberazione”, con la deposizione di un fiore sotto le targhe di vie e piazze dedicate a partigiane e partigiani.
In tutta Europa, dove gli anticorpi generati dalla Resistenza nei Paesi occupati rischiano di scomparire come gli ultimi partigiani, l’Anpi richiama al dovere della memoria attiva. Perché la ferocia, la violenza, l’infamia vennero costruite un giorno dopo l’altro. Scientemente. Per distruggere fisicamente ogni opposizione.
Verranno omaggiate con una rosa le nostre donne e madri ancora oggi capaci di risvegliare e fortificare le nostre coscienze. E mettere in guardia anche i più distratti. Perché se da sempre il 25 Aprile è una cartina di tornasole dello spirito pubblico del Paese, il loro coraggio, la fiducia in un futuro democratico e libero generosamente consegnata a chi restava, ci dicono dove andare. E che nonostante le difficoltà è possibile vincere. Ciò è quanto basta per continuare a camminare.
Ci piace immaginare che quanti della destra di governo proveranno a disertare o sabotare le celebrazioni della Festa della Liberazione, troveranno le vie di fuga costellate di rose. Nella certezza che la memoria attiva è un fertilizzante formidabile, per questo così inviso alle tentazioni nostalgiche.
Sappiano che le nostre rose fioriranno.
Buon 25 Aprile!
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