La proposta di lettura di oggi è un articolo tratto dalla rivista Al femminile di La Repubblica, che già dal titolo fa riflettere, a nostro parere, su un paradosso ovvero che il vestire femminile, che sembra essere più libero, in realtà è ancora condizionato dall’obbligo introiettato al dovere piacere agli altri.
Il titolo è “Il mito della bellezza in ufficio:bisogna essere belle(e magre) per fare carriera? (Spoiler:sì)”, che si rifà al saggio di Naomi Wolf “Il mito della bellezza”.
Uomini e donne non hanno ‘pari dignità nelle interazioni ‘ perché l’apparire delle donne viene prima di ogni altra qualità, specialmente nel mondo del lavoro, dove il codice d’abbigliamento è parlato con un linguaggio inventato dagli uomini, che le donne cercano di decifrare.
Anche nell’abbinare gli aggettivi “femminile e pratico” nel definire il proprio modo di vestire in ufficio, si insinua quell’inconsapevole tendenza di volersi assumere la responsabilità di scatenare eventuali reazioni/violazioni.
Di strada c’è n’è ancora tanta da fare, anche su quegli aspetti superficiali e apparentemente banali e dati per superati, che in realtà celano una cultura fortemente maschilista, che non si destruttura nelle aziende con attestati di certificazioni da sbandierare, ma con un cambiamento culturale che deve partire in età scolare, vissuto e agito in ambito familiare e che nel superamento del gender gap deve trovare la concreta realizzazione!
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