La #propostadilettura odierna è duplice, consigliata dalla nostra cara compagna Barbara Malini, che così la introduce alla vostra attenzione.
Anche questo Sanremo ha conduzione maschile e anche in questo Festival la maggioranza degli artisti in gara sono maschi (il 65%) e “…quando c’è sempre – SEMPRE – una netta maggioranza maschile, due sono le cose: o pensiamo che gli uomini siano più bravi oppure chi li invita ne è proprio convinto” (Corinna De Cesare).
Nel mondo della musica i pregiudizi di rappresentazione e le discriminazioni di genere persistono.
“Pensati libera” scrive sul suo vestito Chiara Ferragni e Lucarelli le risponde che “femmimismo non è quel ruolo da topolino bagnato che ‘insegnatemi” ‘ho paura’ accanto a due uomini che sono papà e maestri”.
Migliaia di giovani stanno seguendo questa edizione del Festival, mia figlia tra questi. Loro non fanno caso al colore della pelle di Egonu e neppure al fatto che la Victoria dei Maneskin, che imbraccia il basso con determinazione e si dimena facendo linguacce, sia una donna. Io invece si!…
Penso a quel lontano 1978 in cui Meri Franco-Lao scriveva ‘ammettiamolo: se una delicata adolescente ci dice di essere batterista, abbiamo un moto di disappunto o quantomeno di stupore – e aggiungeva – “Siccome lo strumento musicale viene fatto vibrare affinché produca suoni, spesso viene considerato come un organo munito di zone erogene sulle quali agire più o meno sapientemente. La donna quindi potrebbe essere stata estromessa dallo strumento per gli stessi motivi che l’hanno esclusa dall’erotismo attivo”.
No, non sono solo canzonette.
Sanremo riflette il costume e la società corrente ma ha anche l’ambizione, per quanto in modo “anchilosato, rabberciato, futile, vanitoso, lercio e interessato” – per dirla alla Flaiano – di indirizzarne la direzione.
Ci sono dei semi di speranza a mio parere e per dirla con il Blasco “Forse qualcosa s’è salvato. Forse davvero non è stato poi tutto sbagliato”
Perché Sanremo è Sanremo
di Corinna De Cesare
Aveva ragione Flaiano, che su Sanremo disse: «Non ho mai visto niente di più anchilosato, rabberciato, futile, vanitoso, lercio e interessato». Lo guardiamo proprio per questo, aggiungo io, e ogni anno è un appuntamento fisso.
Comitati d’ascolto, chat con gli amici, il mio profilo twitter che resuscita solo per l’occasione. Perché Sanremo è Sanremo, come cantava Rudy Neri dei Prefisso che con la guida di Pippo Baudo divenne per anni la sigla del nostro cuore. Con quel «PARAPPAPA» che aspettiamo con ansia tra le basi musicali social (pronto? polizia dell’Instagram???)
L’altro giorno però mi è capitato sotto mano un video (no, non è quello di Morgante di Fratelli d’Italia ma ci arriviamo): era un dopo Festival, Sanremo 2019, Francesco Renga che blatera su questioni di genere e vocalità: «La voce maschile è più armoniosa, più bella e all’orecchio umano ha una gradevolezza diversa da quella femminile».
Il giorno dopo Renga venne massacrato su tutti i giornali, seguirono articoli, comunicati stampa, scuse e “baci alle donne”: la solita baracconata all’italiana senza mai nessuno che pretendesse scuse per quelle frasi sessiste, andando poi ad analizzare il tema.
Ed eccomi dunque qui a scartabellare dati e numeri, fare ricerche, calcoli ed elaborare grafici (vedi sotto) che raccontano che no, Renga, forse, non è proprio il solo a pensarla così.
Nel 2020 il musicologo de La Stampa Giangiorgio Satragni si esibì in quello che Michela Murgia definì un capolavoro dell’arroganza maschile. Nel commentare il “Così fan tutte” al Festival di Salisburgo scrisse della bravura di Joana Mallwitz che aveva diretto “come farebbe un uomo”.
Nelle orchestre sinfoniche, iniziarono ad arrivare le donne solo quando (anni ’70) per le audizioni a teatro si cominciò a usare i teli e QUINDI per giudicare i musicisti candidati, rimasero solo le orecchie nelle cosiddette blind audition.
Ma a Sanremo si canta e anche quest’anno (sorpresona!!) la maggioranza degli artisti in gara sarà un uomo (il 65%): una regola praticamente inviolata negli ultimi 25 anni con un’unica eccezione. Nel 2012 le donne in gara arrivarono a essere il 56% (guarda caso, podio femminile). Per il resto, l’Ariston ha sempre avuto sul palcoscenico tanti, tantissimi più uomini (se fluidi, ce lo dirà l’onorevole Morgante).
Un film che abbiamo già visto in tutte le salse: in politica, al parlamento, nei consigli di amministrazione delle società quotate. Ad Atlantia è bastato uscire dalla Borsa (dove si applica la legge delle quote di genere) et voilà: tuttimaschi.
Il divario di genere riguarda sia la musica italiana che quella internazionale: nelle prime 20 posizioni dei dischi più venduti in Italia nel 2021 c’è stata una sola artista donna; tra gli autori iscritti alle maggiori società di collecting europee, le autrici rappresentano in media il 16%; le musiciste valgono il 14,1% del totale degli artisti presenti nelle classifiche di Spotify in Italia.
A livello internazionale (“Women in Music” 2021), solo in ambito produzione il rapporto donna-uomo è 1 a 37, mentre nell’autorialità, quindi nel ramo di scrittura di testi e musica, le donne sono poco più del 12%.
Se torniamo in Italia, il panorama è desolante: dal 1984, da quando, cioè, si assegnano le targhe Tenco per il miglior album, considerate uno dei premi più prestigiosi della musica italiana, solo una volta ha vinto una donna: Carmen Consoli, nel 2010.
“Contano le canzoni, non chi le canta”, è il mantra quando si fanno presenti problemi di rappresentazione e discriminazione di questo tipo. Oppure: “Conta il merito”. Il tema però, è che quando c’è sempre – SEMPRE – una netta maggioranza maschile, due sono le cose: o pensiamo che gli uomini siano più bravi oppure chi li invita ne è proprio convinto. Esattamente come Renga.
I pregiudizi di genere (i famosi bias), se inconsci, questo fanno: influenzano le decisioni, la selezione e possono impattare sulla carriera delle donne, sul loro stipendio, sulle promozioni e sulla loro presenza ai festival. Come in tanti altri settori, nella musica italiana, ancora oggi, gli uomini e le donne non sono uguali. Lo sapevamo già? Certo ma, a ridosso della settimana santa di Sanremo, tra la barzelletta delle co-conduttrici e quella sul gender fluid, forse è bene ribadirlo. Perché Sanremo è Sanremo.
Pentagramma Donna
dal sito efferivistafemminista.it
Nel piccolo libro intitolato «Musica strega» (pubblicato dalle Edizioni delle Donne di Roma e in stampa presso le compagne di «Parigi e di (Bonn) espongo la mia tesi sul ruolo della donna nella musica.
Definisco «musica strega» una musica di donne sulla quale si è abbattuta la repressione, una musica di segno femminile che è stata sistematicamente emarginata, perseguitata ”e sterminata, e della quale non ci è pervenuto che qualche residuo superstite: le ninne-nanne, i riti coreutici, le funzioni magico-mimetiche, spettacoli totali, coesivi, comunitari, con parte preponderante del canto e della danza.
Sulle scarse e circoscritte cose che facciamo in campo musicale ci pesano i dieci secoli e più di segregazione voluta dalla Chiesa, i tre secoli di castrati coi quali abbiamo condiviso i ruoli nel teatro musicale e tutto l’aspetto esteriore di costume che si identifica col «bel canto» e col «divismo» sulle nostre esecuzioni strumentali si sente l’equivoco di un rapporto interrotto e ripreso in maniera sballata. Qualche sparuto nome di donna compositrice non basta a colmare tanto silenzio femminile in campo creativo musicale dai tempi di Saffo. Possiamo constatare che anche nella musica la donna svolge un ruolo principalmente interpretativo, riproduttivo, se non ripetitivo.
Non penso che alle donne non abbiano insegnato a comporre come agli uomini né che le case editrici abbiano rifiutato di pubblicare i manoscritti di fattura femminile; sono invece propensa a supporre che la donna è stata estromessa dalla filogenesi della musica. Da attività totalizzante (in particolare, Saffo?), la musica si scinde, si depaupera, scaccia la donna. E la donna non fa musica perché non vi si sente espressa. Questa musica che è arrivata fino a noi, quella che ha vinto, non le concerne. Se la donna vuole fare musica e sentirsi coinvolta non solo in prima persona ma come donna, deve partire da altre premesse. A mio parere la donna ha un rapporto nevrotico con lo strumento musicale, e ciò potrebbe derivare da una storia privata molto frequente nella nostra civiltà cittadina, quella delle signorine perbene che erano costrette a prendere lezioni di pianoforte e a sollevare con grazia femminile le mani dalla tastiera; qualcuna poteva preferire l’arpa, considerato lo strumento «più plastico» per la donna: era però tenuta a nascondere pudibondamente con i ricchi volants della gonna l’antiestetico lavorio dei piedi per fare i diesis e i bemolle. Saper suonare è diventato per noi una funzione decorativa, una maniera di mostrare tramite tali costosi strumenti la provenienza sociale della famiglia, una merce in più da giostrare nel mercato dei mariti.
Tenendo lezioni di musica a dei ragazzi, mi capita spesso di osservarli alle prese col, pianoforte, per esempio. Le ragazze si divertono molto meno dei ragazzi di fronte alla tastiera. Le loro esibizioni normali sono costellate da pretesti del tipo «non ricordo», «mi scivolano le mani», «sono fuori esercizio», «non posso quando mi guardano», mentre i maschi, anche se si tratta di sconclusionati tentativi con un dito solo, continuano imperterriti per ore.
Credo che pesi ancora il retaggio delle signorine fine Ottocento anche nelle concertiste, versante egemonizzato dalle pianiste e dalle clavicembaliste, dove è del tutto stemperata la presenza delle direttrici d’orchestra. Mi sembra quindi che la donna risente, nel suo rapporto con lo ‘Strumento musicale, certi conflitti legati alla sua infanzia e al suo approccio alla musica, quasi sempre imposto. Si tratta di esperienze soggettive che si iscrivono, beninteso, in condizionamenti sociali. Non è ritenuto femminile, per esempio, suonare la grancassa o la tromba. Ammettiamolo: se una delicata adolescente ci dice di essere una batterista, abbiamo un moto di disappunto o quantomeno di stupore. Io ricordo lo scandalo suscitato da una violoncellista, non solo perché si riteneva «scomposta» la posizione a gambe divaricate, ma anche perché tra esse accoglieva uno di quegli strumenti che vengono paragonati spesso al corpo della donna. Infatti ovunque si usa paragonare le chitarre, le viole e i liuti col corpo femminile, e anche assimilare certi momenti particolarmente felici di un’esecuzione strumentale al corteggiamento, alla carezza, all’abbraccio amoroso, all’atto sessuale.
Si potrebbe supporre che siano ragioni di indole erotica che tengono lontane le donne dalla maggior parte degli strumenti musicali. Siccome lo strumento musicale viene fatto vibrare affinché produca suoni, spesso viene considerato come un organo munito di zone erogene sulle quali agire più o meno sapientemente. La donna quindi potrebbe essere stata estromessa dallo strumento per gli stessi motivi che l’hanno esclusa dall’erotismo attivo.
La donna ha invece un rapporto più saldo e liberatorio con il canto di quanto non l’abbiano gli uomini. Appare subito evidente che le cantanti superano in numero i cantanti, sia nel campo della musica operistica, da camera, folk o leggera, e che nessun corrispondente maschile, nemmeno il più azzeccato, riuscirebbe a superare una , Monserrat Caballé, una Kathy Barberian, una Maria Callas, una Mina, una Aretha Franklin, in facilità di emissione, duttilità ‘di accenti, ricchezza di sfumature, apporti espressivi originali, ripescati nei terreni più rimossi. Così come la danza si è aperta a nuovi orizzonti grazie alle donne, che l’hanno strappata dal ghetto del «femminile etereo e sognante», credo che con il lavoro delle donne si potrà riscoprire una musica agente, che ci esprima, ci faccia conoscere e ci potenzi. Ouel «contromanuale di musica», così per opera delle compagne che da ogni parte mi hanno chiesto di rendere eseguibili e audibili certe conclusioni teoriche e certe proposte di spettacolo, sta stimolando la nascita di laboratori di musica strega.