Oggi entriamo nel dibattito sulla campagna elettorale e sul significato politico da dare ad un possibile esito di queste elezioni: per la prima volta in Italia una donna ha la concreta possibilità di accedere alla carica della Presidenza del Consiglio ed è una donna di destra. Su questo tema, che sta attraversando e animando la campagna elettorale in corso, insieme alla nostra compagna Giulia Farinelli, vi proponiamo la lettura di un post pubblicato da Michela Murgia su Instagram, con cui concordiamo in pieno.
Se esistano o meno femministe di destra è una domanda che non porta da nessuna parte. Il giorno in cui mi metterò a dare patenti di femminismo alle altre donne deve ancora sorgere. So però per certo che esiste un modo femminista di esercitare la propria forza e uno che femminista non lo è per niente. Ogni volta che incontro una donna potente, quello che mi chiedo è: che modello di potere sta esercitando? Se usa la sua libertà per ridurre o lasciare minima quella altrui, questo non è femminista. Che sia di destra o di sinistra, se chiama meritocrazia il sistema che salvaguarda il suo privilegio di partenza e nega i diritti di altre persone, questo non è molto femminista. Che sia di destra o di sinistra, se il suo modello di organizzazione dei rapporti è la scala e non la rete, nemmeno questo è particolarmente femminista. Che sia di destra o di sinistra, se la sua visione della fragilità altrui è paternalista e l’unica soluzione che le viene in mente è una protezione che crea dipendenza, questo è il contrario del femminismo. Che sia di destra o di sinistra, se per lei le funzioni patriarcali sono più importanti delle persone che le svolgono, questo senz’altro non è femminista. È quindi inutile chiedersi se Giorgia Meloni sia femminista o non lo sia solo perché è a capo di un partito. Fatevi domande sul suo modo di esercitare il potere e vedrete che il dubbio neanche vi viene.
P.S. Sì, conosco anche donne di sinistra che usano il potere così, ma nessuna corre il rischio di diventare presidente del consiglio.
Per approfondire il dibattito in corso, suggeriamo inoltre:
- l’articolo di Giulia Siviero pubblicato l’altro ieri su Il Post, che racconta gli esordi di questo dibattito e le diverse matrici dei movimenti femministi
- l’articolo di Concita De Gregorio pubblicato sulla Repubblica, che considera il caso Meloni una lezione impartita alle altre forze politiche
Buona lettura
Premessa
Però siccome nel titolo di questo articolo ci sarà fatalmente la parola “donna” bisogna fare una noiosissima premessa: sapete infatti che dei pezzi si legge solo il titolo, specie se on line il contenuto è a pagamento ma anche se è gratis, al massimo le prime dieci righe prima che il testo sfumi. La noiosissima premessa è che Una Donna, Una di nome e Donna di cognome, è un soggetto di fantasia, un’entità mitologica come l’unicorno e l’ircocervo, una figura che esiste solo nelle fiabe della buonanotte, nelle leggi sulle quote rosa e nel dibattito pubblico pre-elettorale. Oltreché nei titoli, naturalmente, perché ci sta: un’astrofisica è più lungo, i titoli sono corti. Una Donna Presidente o La Prima Donna Presidente non significa assolutamente niente, come da anni si ripete qui allo sfinimento, poiché le donne come ogni essere vivente, come i sacrosanti bambini persino, rispondono alle categorie degli umani: ce ne sono di intelligenti e di idiote, di generose e di avide, di corrotte e di integre, di coraggiose e di pavide, per tacere dell’aspetto che non mi pare democratico né sororale. Ci sono, al mondo della politica, Sanna Marin e Sarah Palin: ditemi voi cosa hanno in comune oltre a quel che non si può dire a meno che non sia anche percepito, J. K. Rowling è alla gogna per averlo fatto – oggi vorrei stare tranquilla e lo darò per sottinteso. Certo, le donne se ballano sono tendenzialmente zoccole e non simpaticamente disinvolte quanto un uomo che balla, se urlano sono isteriche e non volitive, se minacciano di morte sono trattate con psicofarmaci e non diventano capi di gabinetto. Ma questo è un fatto politico, che è appunto ciò di cui si discute qui. Non è una questione di genere, è una questione di cultura diffusa.
Indizi
Cominciamo dagli indizi, dagli inizi. Meloni (destra) Carfagna (centro) e Schlein (sinistra) sono persone che, per come le conosco, hanno un tratto in comune, anzi due: sono studiosissime, di quelle che quando gli altri vanno a dormire restano sul compito dell’indomani, lavorano ossessivamente, difficile che alla prova tu le trovi impreparate. Sono ambiziose, anche, e ostinate. Nessuna delle tre ha avuto stesi i tappeti rossi, al principio: a nessuna hanno detto prego si accomodi alla leadership. Il tipo di insidie che hanno dovuto affrontare è stato, tuttavia, di segno diverso.
Giorgia Meloni
Giorgia Meloni si è affermata in un mondo – dentro un’idea di mondo – dove le donne sono mogli e madri, servono principalmente a riprodursi: a produrre uomini che vadano in battaglia. Ancelle, vanto domestico. Ha ribaltato il segno perché era motivata dalla biografia e caparbia per talento, naturalmente, ma anche perché gli altri possibili leader – impresentabili avanzi del Novecento – hanno capito che con lei potevano pensare l’impensabile: vincere. Giovane, donna, nuova, perfetta: una testimonial formidabile, una front-woman, quello che serve. Bravi, perché gli altri non ne sono stati capaci. Si immagina che a Ignazio Benito La Russa sia costato parecchio dire vai avanti tu, Giorgia, ma persino lui l’ha fatto: conveniva a tutti e la “ragazza” (a lungo e tuttora in privato irrisa, specie tra gli alleati) è, obiettivamente, tostissima.
Mara Carfagna
Anche Mara Carfagna ha passato le forche caudine del sessimo, ma di tipo diverso. Le donne, nell’idea di mondo di Berlusconi, non hanno la funzione di riprodursi (tranne alcune, selezionatissime angelicate e recluse nel castello) ma di intrattenere: sono il ristoro del soldato, il premio di tante fatiche, la gioia per gli occhi e, eventualmente, per il resto del corpo. Carfagna, giovane di strabiliante bellezza, superò facilmente il casting estetico del personale politico ma si trovò presto, grazie alle sue doti di discrezione e serietà, al confine tra le due categorie: avrebbe potuto persino essergli moglie – le disse Lui un giorno, come il maggiore dei complimenti. Solo che la bellezza, incredibilmente, non era la principale delle sue virtù. Dopo averla utilizzata come chiave d’accesso, cosa che d’altra parte sarebbe stato assurdo chiederle di non fare giacché quelle erano e sono le regole d’ingaggio condivise, l’ha poco a poco silenziata, castigata a vantaggio della tenacia, dell’intelligenza e del lavoro. E’ diventata un “punto di riferimento fortissimo” del draghismo, essendo forse l’unica capace di far sorridere in pubblico Mario Draghi mentre con la mano sinistra lo impegnava a onerose promesse per il Sud. C’è stato un momento, forse un minuto, in cui due campioni del narcisismo egotico come Renzi e Calenda, essendosela trovata tra le loro fila per sorpresa, hanno pensato: toh, hai visto mai che non ci possa servire. E se mandassimo avanti lei, che è brava a parlare e sa persino quel che dice? E’ giovane è donna è nuova è quello che serve, magari noi due ci mettiamo dietro e funziona. E’ durato un attimo, appunto. Sarebbe stata un’ottima idea – un’ottima avversaria di Meloni – ma sia Renzi che Calenda vengono dal centro del Pd, dalla pancia della misoginia strutturale che, a sinistra, si nasconde a parole e si pratica nei fatti. E difatti, Elly Schlein.
Elly Schlein
Di ottima famiglia, bilingue, padre americano docente universitario nelle massime università madre italiana figlia di avvocato senese antifascista, Schlein va al liceo a Lugano, fa l’università a Bologna, la militanza da volontaria con Obama. Frequenta i centri sociali si occupa di migranti (e di cinema del reale, sui migranti) sta a sinistra, pervicacemente, fraternizza con Pippo Civati e milita con lui, quando nel 2013 il Pd di Renzi e di D’Alema congiura contro Prodi al Quirinale diventa l’anima di Occupy Pd e stampa le magliette “siamo più di 101”, che porta in dono a casa al suo concittadino. Prodi, che da gran democristiano conosce il vulnus che deriva dall’essere scoperti a sinistra, la prende sotto l’ala – ma senza dare nell’occhio. Ancora con Civati (l’eretico del Pd poi messo al bando per le critiche a Renzi, oggi difatti candidato con Sinistra italiana) fa il pieno di preferenze e viene eletta al Parlamento europeo. Insieme fondano Possibile, nel 2015, e rompono con il partito madre. E’ solo quando il Pd vede ciò di cui Schlein è capace – conta le preferenze, 55mila, subodora il potenziale di mobilitazione delle sardine, più avanti – che il Pd emiliano apre uno spiraglio. Insomma. Schlein non è passata dal casting paternalistico, che a sinistra percaritadiddio non esiste, ma ha dovuto forzare la saracinesca del partito col piede di porco e poi, da fuori, mostrare la potenza di fuoco. Allora, prego, benvenuta. Torna pure, vicepresidente di Regione. Per le deleghe vediamo, poi ci accordiamo. Solo un cenno, di passaggio, al modo con cui la sinistra concepisce le quote rosa: una rottura di scatole, ma si deve fare perché bisogna essere nel giusto. Le candidate, in lista, non sono (quasi) mai in posizione eleggibile. Quando arriva Enrico Letta di ritorno dalla Francia e dice mancano le donne, vorrei due capigruppo donna, si apre una battaglia di correnti, di cooptazioni, il paternalismo decente che non vuole chiamarsi così. Nessuna candidata del Pd è stata mai veramente candidata a niente, erano solo rose e bandiere. Anna Finocchiaro diverse volte fino allo sfiorire, all’ammainare. Emma Bonino, che siccome la storia fa il suo giro oggi è di nuovo nelle liste del Pd, addirittura rivale del suo ex sodale Calenda, avrebbe potuto dieci volte essere la Prima Donna Presidente, presidente di qualunque cosa. Ma il Vaticano non voleva, per carità, una radicale abortista, e il partito rosée neppure. Una Madre della Patria, certo, ma mica vorrai cedere il posto per lasciarglielo. E così sono state silenziate, depotenziate, derubricate ad amanti figlie sorelle compagne di filiera e amiche di. Generazioni di giovani donne bravissime, tuttavia non al punto di ribaltare il tavolo e denunciare l’andazzo. Non conveniva, del resto. Restare buone, al proprio posto, mettersi in fila in corrente prima o dopo avrebbe dato i suoi frutti: ti avrebbero scelta, chiamata. Ma nessuno ha mai fatto la rivoluzione prendendo il numero d’ordine alle poste, prego è il suo turno. Nessuno ha mai cambiato le regole adattandosi alle regole. Chi ti porta, di chi sei? – è sempre la domanda declinata al femminile. Se ti porta qualcuno, trattiamo. Vediamo di trovarti un posto in cambio del virile consenso. Se non ti porta nessuno, ti eliminiamo. E’ costellata di salme muliebri la superiorità etica della sinistra. E certo che disturba, adesso, vedere la Prima Donna a destra. Ma lì qualcosa di semplice ha funzionato, e non è meritocrazia né eguaglianza di genere: è convenienza. Di qua, maschi alla decima legislatura non mollano l’osso e giovani donne entrano, ma solo se sono state portavoci, se sono certamente valide ma almeno mogli, se hanno proceduto come da consegne. Non Elly Schlein, direi. E nel suo modo neppure Mara Carfagna. Sarebbe stato bello oggi vederle contendere a Giorgia Meloni il primato –persino in un dibattito tv. Io lo guarderei, le ascolterei. Ma in questo la destra, semplicemente, è stata come sovente accade più svelta e più spiccia.
La lezione
Non sarà un bene per le donne in generale, avere una donna di destra Presidente. Ma sarà certo una lezione per la sinistra in particolare. Speriamo che serva, speriamo che ci sia più d’una, tra le ragazze del futuro della canzone popolare, che impari a dire ora basta, ora no. (Aggiungo, in margine all’ultimo dibattito parafemminista, che anziché mettere l’asterisco dichiaro di usare “presidente” come fosse di genere neutro, genere che nel passaggio dal latino l’italiano ha perduto. Ripristinare il neutro, ecco una battaglia lessicale interessante per le Femen dottorate in filologia romanza). Poi, volendo, si può passare alla battaglia al patriarcato e fotterlo, come direbbero loro, coi fatti. Prendersi la scena da sole, perché lasciare non te la lasciano. Sarebbe ottimo già questa volta, ma se non si fa in tempo va bene anche cominciare a lavorarci per la prossima.