Con sentenza n.2868/25.1.22, la Seconda Sezione Penale della Corte di Cassazione afferma il principio per cui integrano il reato di auto-riciclaggio quelle operazioni che, attraverso il trasferimento di valuta verso Società estere che si interpongono nell’acquisto di cripto valute, effettuate anche a mezzo di prestanome, pongono un serio ostacolo all’identificazione del beneficiario finale delle transazioni ed effettivo titolare di bitcoin acquistati non da lui ma dalle Società estere che fungono da “exchanger di criptovalute”.
In questo caso viene disposto nei confronti del ricorrente il sequestro preventivo, anche per equivalente del profitto dei reati di autoriciclaggio, avendo l’indagato commesso dei reati presupposto i cui profitti vengono poi trasferiti a Società estere adibite alla compravendita di criptovalute (in particolare bitcoin). Tali trasferimenti avvenivano tramite bonifici in euro effettuati attraverso carte Postepay intestate per lo più a Soggetti prestanome, ma anche all’indagato stesso.
Il ricorrente contestava il fatto che le transazioni operate attraverso la criptovaluta bitcoin possano ritenersi anonime, in quanto ogni movimento avviene registrato in una sorta di libro contabile digitale (distributed ledger) diventando di dominio pubblico, accessibile costantemente da chiunque ed è sempre possibile risalire agli accounts delle Parti dell’operazione trascritta in virtù della nuova tecnologia blockchain.
Malgrado ciò, viste le modalità delle operazioni contestate, la Corte osserva che non si tratta di acquisto diretto di bitcoin da parte dell’indagato, ma di trasferimento, tramite bonifici in euro, di somme di denaro a Società estere incaricate successivamente di cambiare la valuta ricevuta (euro) in bitcoin.
Di conseguenza l’indagato non agiva in proprio nell’acquisto di tale valuta virtuale, art.1 comma 2 lett.qq Dlgs.231/07, dove viene definita la rappresentazione digitale di valore, non emessa né garantita da una Banca centrale o da un’Autorità pubblica, non necessariamente collegata ad una valuta avente corso legale, utilizzata come mezzo di scambio per l’acquisto di beni e servizi e trasferita, archiviata e negoziata elettronicamente, in quanto le transazioni avvenivano, in molti casi, tramite presta-nomi intestatari fittizi di carte Postepay utilizzate per effettuare i bonifici a Società estere.
Per il Giudice di legittimità, le operazioni poste in essere, attraverso un trasferimento di valuta verso Società estere che si interpongono nell’acquisto di criptovalute, pongono ostacolo all’identificazione del ricorrente come beneficiario finale delle transazioni ed effettivo titolare di bitcoin acquistati non da lui ma da Società estere che fungevano da exchanger di criptovalute.
Evidenziamo, inoltre, che, ai fini dell’integrazione del reato di auto-riciclaggio, non occorre che il Soggetto ponga in essere una condotta di impiego, sostituzione o trasferimento del denaro, beni o altre utilità che comporti un assoluto impedimento alla identificazione della provenienza delittuosa degli stessi, essendo, al contrario, sufficiente una qualunque attività, concretamente idonea anche solo ad ostacolare gli accertamenti sulla loro provenienza. Sempre con riferimento al reato di auto-riciclaggio, la Corte specifica che tra le condotte punibili rientra anche il trasferimento del bene di provenienza illecita che, nel caso di specie, è rappresentato dal denaro contenuto nelle carte Postepay utilizzate per effettuare i bonifici all’estero.
All’attività di cambio della valuta, come si legge all’interno della Sentenza, deve essere attribuito carattere finanziario, tanto che a livello nazionale essa è regolamentata dalla Legge e il Soggetto che la esercita deve essere iscritto in appositi Registri.
Perciò è irrilevante procedere ad una verifica rispetto all’utilizzo ancora successivo dei bitcoin ottenuti dal ricorrente, in quanto il reato di auto-riciclaggio risulta già integrato dalla preliminare operazione di cambio della valuta cui il Soggetto aveva dato corso servendosi di Società estere.