Donne di tutto il mondo: Donne e Guerra

di Anna Maria Romano 

L’8 marzo è appena passato e l’emozione che mi sovrasta ancora non i consente di approfondire temi, sicuramente importanti, più strettamente legati al mondo del lavoro internazionale.

Mi sono chiesta cosa o quale immagine potesse parlare delle Donne in un giorno altamente simbolico come questo 8 marzo di guerra. La lista che si affaccia alla mia mente è lunga: Ucraina, Afghanistan, Etiopia, Siria, Myanmar…… La lista è troppo lunga: ci sono, al momento, almeno 20 conflitti nel mondo (vi allego una cartina presa da wikipedia). Più silenziosi, meno evidenti, subdoli, ma altrettanto mortali e drammatici.  Alcuni, basti pensare all’Afghanistan, che riportano le donne al medioevo più cupo.

Donne e guerra

L’unica immagine che ha rispecchiato il mio sentire è il nero, il buio di questo inutile dolore.

La guerra in Ucraina ci colpisce come uno schiaffo per la vicinanza fisica, per la contiguità.

Per questo il primo pensiero, urgente e doloroso, va alle Donne ucraine e alle immagini che ci avvolgono in questi giorni terribili. Tante donne, che ci raggiungono per il loro dolore, per la loro forza, in fuga, resistenti, combattenti che siano.
Le donne a cui si affida la fuga per a cura dei piccoli, figli loro o altrui, degli anziani, della sopravvivenza.
Le donne che vogliono resistere, fare la differenza, anche se questo significa abbracciare un mitra, tirare una molotov, arruolarsi. Le donne che nascono, come la piccola Mia, partorita nel tunnel della metropolitana, diventato bunker. Le donne, ragazze, bimbe che muoiono.

Ma anche donne russe, che si contrappongono consapevoli che il carcere sarà la conseguenza. Simbolica Yelena Osipova, nota sopravvissuta all’assedio di Leningrado durante la Seconda guerra mondiale ed oggi pittrice, che ha preso in mano due grandi cartelli per dire “no” all’invasione russa in Ucraina ed è scesa in piazza a San Pietroburgo ed è stata arrestata.

Le donne che brillano per la loro assenza ai tavoli dove si negozia, dove si decide. Non ci sono donne laddove si decide di guerra, di bombardamenti, di confini, di misure d’emergenza, ma che sono sempre presenti dove la guerra si subisce.

Le donne che prendono posizione, netta definitiva, anche rinunciando ad un pezzo della loro storia.

Mi attraversano le parole che cercano di descrivere, di fermare in un’unica forma ciò che vedo, che leggo, che sento. Che tengo, trattengo dentro di me, perché niente di questa immane, dolorosa forza vada perso: le lacrime, la forza, il dolore, il sorriso, lo sgomento, la determinazione, la paura, l’amore, la salvezza, la sconfitta, il sovvertimento di ogni sicurezza, l’annientamento, la perdita di futuro, la fame, a sete, la lotta, la resistenza. Lo stupro.

Lo stupro, ancora e ancora. Non è in questa guerra. E’ la guerra per le donne. Sempre.

Ancora oggi, nelle guerre (si perché “conflitti”- “operazioni speciali” sono termini troppo edulcoranti, che lasciamo agli infingardi) ci sono uomini che vedono nel corpo delle donne un terreno di conquista, sul quale sfogare la radice della violenza e del modo di essere e sentirsi uomo. Un’altra immagine si accavalla in contrapposizione, quella delle giovani, belle assistenti di volo al tavolo del despota: anche i loro corpi vengono usati per la propaganda.

Ed è tremendamente amaro il constatare che il corpo delle donne, ora quelle ucraine, ma il corpo di tutte le donne, è ancora considerato semplicemente una cosa di cui appropriarsi.

 

Non ha a che fare con la fame di energia, i territori da conquistare, i confini da ridisegnare: sono i confini della donna ad essere violati

E lo stupro di guerra ne è la forma più schifosa, come se nello stupro ci fosse una rivincita bestiale, un trofeo, una testa mozzata da appendere alla lancia.

Lo stupro e tutte le forme di violenza sessuale vengono usati come armi di guerra per sopraffare, annientare fisicamente e psicologicamente le donne e le ragazze. Sempre. Centinaia di loro , di NOI, sono sottoposte a trattamenti brutali allo scopo di degradarle e privarle della loro umanità. La gravità e la dimensione di questi reati sessuali sono spaventose, al punto da costituire crimini di guerra.

 

Ho ancora negli occhi il viso di una giovane kosovara che ho incontrato in un campo profughi durante la guerra. Non si può mettere su un foglio tutto l’ orrore che stava dietro quello sguardo pulito, profondamente disfatto e senza lacrime.  Ma nessuna di noi che l’ha incontrata ha il diritto di accantonarlo in un angolo buio dei ricordi difficili. Il suo pianto silenzioso deve fare rumore attraverso di noi.

Ecco, se c’è qualcosa che può sovrastare il buio, che può bucare la cappa di ininfluenza che rischia di trascinare verso l’indifferenza, che deve costringere a combattere per riportare i colori, quelli della pace, è quel pianto silenzioso, che non deve smettere di fare rumore nelle nostre teste.

Ognuna di queste donne di guerra ci appartiene: ovunque sia.

Vi lascio con la poesia che Daniela Morozzi ha letto per le donne della CGIL in piazza Santa Croce l’8marzo:

“Vietnam” di Wislawa Szymborska

Donna, come ti chiami? – Non lo so.
Quando sei nata, da dove vieni? – Non lo so.
Perchè ti sei scavata una tana sottoterra? – Non lo so.
Da quando ti nascondi qui? – Non lo so.
Perchè mi hai morso la mano? – Non lo so.
Sai che non ti faremo del male? – Non lo so.
Da che parte stai? – Non lo so.
Ora c’è la guerra, devi scegliere. – Non lo so.
Il tuo villaggio esiste ancora? – Non lo so.
Questi sono i tuoi figli? – Si

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