Donne di tutto il mondo: amplificare la voce delle donne

Quante di noi sperimentano ogni giorno, ad ogni riunione, la ragnatela del potere al maschile? Gli uomini prendono la parola anche quando hanno poco da dire, reputando sempre interessante e competente il proprio pensiero. Si accreditano con la parola; si riproducono con essa e rilanciano il filo della ragnatela di appartenenze che alimenta il potere reale.

Noi in questo meccanismo entriamo malamente e con difficoltà: le ore estenuanti spese in discussioni, il dover affrontare una mentalità da “club per soli uomini” e, soprattutto, la maschilizzazione dei comportamenti per ottenere l’accesso al potere sono alcuni esempi.

Quante volte abbiamo rinunciato a parlare perché non pensavamo di avere un’idea che valesse la pena diffondere: per non renderci volontariamente vulnerabili al giudizio, al fallimento, a sentire che ciò che diciamo “non interessa”.
Quante volte nessuna delle nostre parole, per quanto intelligenti, colte, avanzate, non viene ripresa e sottolineata?

E anche questo, insieme al mansplaining e a tanti altri piccoli/grandi gesti quotidiani diventa un elemento sminuente per noi ed un ostacolo alle porte dei ruoli apicali.
Per la maggior parte delle donne sul posto di lavoro, questo fenomeno è estremamente familiare: una donna offre un’idea in una riunione, ma nessuno la nota o la riconosce fino a quando un uomo non dice la stessa cosa.

E non è nelle nostre teste. Decenni di ricerche mostrano che le donne vengono interrotte più spesso, sia da uomini che da donne, e che alle donne viene dato meno credito, o addirittura penalizzate, per aver parlato di più.

Il tema non è né legato al ruolo professionale né, tanto meno, limitato ai confini geografici, ma è un comportamento terribilmente legato al genere.

Sull’idea di potere “maschile” e “femminile”, sull’essere DI potere o AL potere abbiamo discusso tante volte: qui mi interessa proporre un’esperienza positiva che nasce dalle donne americane e che si definisce “amplification”, “amplificazione”.

Perché amplificare?

Sappiamo benissimo che, sebbene le donne siano leader di talento, la nostra fiducia è notevolmente inferiore a quella degli uomini. La leadership tradizionale è un concetto fortemente genderizzato. L’idea che ci serve, semplice ed efficace, è aiutare le donne a ridefinire la leadership in modi che espandono il genere, facendo sì che funzioni a favore, non contro, la nostra identità, amplificando la nostra voce.

Che cos’è? È intuitivo dal nome stesso.
“Amplificazione” è l’atto di una donna che ripete – o amplifica – l’idea di un’altra donna riaffermandola e dandole così il suo credito. Il termine è stato coniato dalle donne dello staff della Casa Bianca nell’amministrazione Obama che lo hanno usato per combattere le dinamiche di genere che si verificavano durante le riunioni del personale dominato dagli uomini.

Nasce con semplicità, nell’era Obama, Presidente che aveva sfondato un muro apparentemente invalicabile: un uomo di colore al potere. Nonostante ciò, restava sbarrata un’altra porta inaccessibile, quella dell’entrata delle donne.
La Casa Bianca è diversa da qualsiasi posto di lavoro in America. Il potere è definito dalla vicinanza a un singolo individuo: il presidente. Essere “nella stanza” – che si tratti dello Studio Ovale o della riunione del personale senior delle 7:30 del mattino in cui il capo dello staff spiega le principali priorità dell’amministrazione – è fondamentale per esercitare la propria influenza.

Quando il presidente Obama è entrato in carica, i due terzi dei suoi migliori collaboratori erano uomini. Le donne si lamentavano di dover sgomitare per essere presenti nelle riunioni importanti. E quando entravano, troppo spesso le loro voci venivano ignorate.

Quindi le donne dello staff adottarono una strategia, decisa a tavolino, che chiamarono “amplificazione”: quando una donna inseriva un punto chiave, altre donne lo ripetevano, dando credito alla sua autrice. Ciò costringeva gli uomini nella stanza a riconoscere il contributo apportato, negando loro la possibilità di rivendicare l’idea come propria.
“Penso che avere una massa critica faccia la differenza”, ha detto la consigliera senior della Casa Bianca Valerie Jarrett, che è entrata con il presidente Obama ed è considerata una delle sue migliori aiutanti. “È giusto dire che c’era molto testosterone che scorreva in quei primi giorni. Ora abbiamo un po’ più di estrogeni che forniscono un contrappeso”.

È stata una strategia pensata, condivisa, portata avanti quotidianamente. Nessuna invidia o gelosia, nessuna competizione tra donne, ma il mutuo aiuto per sottolineare ed espandere le loro idee.
Il risultato è stato esaltare il ruolo delle donne, cosa che Obama ha notato, iniziando a chiamare più spesso donne e aiutanti junior.

L’atmosfera è, quindi, cambiata notevolmente nel secondo mandato di Obama: i più stretti collaboratori di Obama – quelli che sedevano alla riunione delle 7:30 e guadagnavano il massimo stipendio della Casa Bianca (all’epoca 176.461 $ l’anno) – a quel punto erano equamente divisi tra uomini e donne. Nel complesso all’inizio il gap salariale esisteva ancora (l’uomo mediamente guadagnava ancora circa il 16% in più rispetto alla donna), ma metà di tutti i dipartimenti della Casa Bianca, dal Consiglio di sicurezza nazionale all’Ufficio per gli affari legislativi, erano diretti da donne. Il gap è stato mitigato nei successivi 4 anni.

Mi pare che questa strategia si sia rivelata vincente!

Come ha affermato la giornalista Julie Eilperin del Washington Post, “Le donne della Casa Bianca vogliono essere nella stanza in cui accade” il potere, l’amplificazione ha costretto gli uomini a riconoscere le idee delle donne attraverso la loro difesa condivisa ed il sostegno reciproco.

La soluzione che le donne dello staff di Obama hanno trovato è geniale.

È un ottimo modello per le donne di tutto il mondo che sono frustrate dallo status quo di Manterrupting (interruzione non necessaria di una donna da parte di un uomo) e Bropropriating (appropriarsi dell’idea di una donna e prendendone il merito) e di tutte le nuove parole per tutte le cose vecchie e serie con cui le donne hanno sempre avuto a che fare, ma che non hanno mai nominato. Anche dare un nome, per quanto sciocco o troppo anglofono, significa dare forma e sostanza alle discriminazioni quotidiane. Significa togliere ognuna di noi dalla solitudine che ci fa sentire inadeguate singolarmente, invece che discriminate collettivamente.

Questa semplice strategia dimostra che quando le donne si uniscono e si sostengono a vicenda, il risultato può essere incredibilmente potente. Ma mostra anche quanto sforzo consapevole sia necessario per superare i pregiudizi contro le donne, specialmente le donne al potere.

L’assenza di donne tra esperti e voci-leader ovunque perpetra pregiudizi di genere e l’esclusione socioeconomica nella società. La parità di genere non è un tema individuale, ma un bene collettivo.
L’amministrazione Obama è un ottimo esempio: cosa accade alla più grande potenza del mondo quando il machismo va al potere lo abbiamo subito nei 4 anni successivi alla fine del suo secondo mandato.

Spezziamo questo circolo vizioso esaltandoci l’una con l’altra. Facciamo di noi stesse uno strumento strategico di ribellione ad un modello di leadership che ricalca un modello di sviluppo che sosteniamo di voler cambiare.
Cosa ci piace e ci rende diverse? Sottolineiamolo ogni volta.

Un esempio. Esaltiamo pubblicamente il fatto che i nostri interventi sono più brevi ed interessanti: questo significa immaginare un’organizzazione del nostro lavoro meno stressante e più inclusivo. E non perché dobbiamo correre a casa al “nostro” lavoro di cura, ma perché immaginiamo un mondo diverso, in cui la nostra identità (uomini e donne) passa dalla vita completa e non solo dal lavoro.

Sottolineiamo sempre gli interventi di una donna, senza contribuire anche noi alla nostra segregazione: amplificare significa creare un’esperienza di apprendimento condivisa per le donne all’interno dei loro luoghi di lavoro, sviluppando alleanze.

“From Me to We”: “Da Me a Noi”: e chi ci ferma più?!

A cura di Anna Maria Romano

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