Proposta di lettura: storia delle donne afgane che hanno deciso di restare

Le notizie della strage degli attentati kamikaze all’aeroporto di Kabul risuonano ancora nelle agenzie di stampa e rimbombano nei nostri cuori. La lettura che vi proponiamo per questo week end di fine agosto ci permette di restare idealmente ancora lì, vicine alle donne afgane. Stavolta si tratta di un articolo pubblicato su Globalist di Cristiana Cella, rilanciato dall’Osservatorio Afghanistan, che parla delle donne che restano, che provano a resistere nonostante tutto e raccontano cosa accade.


dal sito www.osservatorioafghanistan.org

 

Globalist  – 24 agosto 2021, di Cristiana Cella  

Nel paese l’85% delle donne è analfabeta. Le scuole sono prese di mira, uccidono ragazzine che inseguivano un sogno. La libertà può costare la vita. Ma loro hanno scelto di resistere

Un grande corpo morto, un cadavere. Svuotato di vita, sospeso, senza futuro. Questa, dice Fatima, nascosta chissà dove, è adesso Kabul. Calma, nel profondo silenzio dell’orrore.

‘A ogni angolo di strada c’è un uomo armato, – dice- la barba lunga, i lunghi capelli sporchi, lo sguardo allucinato di chi non ha in sé un briciolo di umanità. Probabilmente imbottito di droga. La concitazione, il rumore, il traffico, la polvere, tutto sparito. Pochi osano affrontare le strade della propria città, nessuna donna. I passi cancellati.

Le persone a rischio lasciano le loro case, le sedi delle loro organizzazioni, spariscono, bruciano documenti. Documenti che tengono traccia degli innumerevoli progetti, grandi e piccoli, di un lavoro forte, coraggioso e tenace per i diritti delle donne e degli uomini liberi.

Per le strade rimane solo la paura.

I talebani cercano. Cercano nemici, donne in particolare, difensori dei diritti umani, lavoratori di Ong e collaboratori degli stranieri. Cercano bambine e giovani donne per i loro militanti. Le donne , le grandi nemiche. ‘Perseguitano le donne perché ne hanno paura, hanno paura di perdere i loro privilegi, il loro mondo povero, di essere travolti dalla loro forza. Non riescono a guardarle vivere.’ Così mi disse tempo fa Manija,  militante di Rawa, a proposito degli uomini violenti e dei fondamentalisti.

Nei nascondigli arrivano le notizie, sparse, a brandelli, da mettere insieme con il fiato sospeso. A Jalalabad hanno sparato a un uomo perché portava la bandiera afghana, chi è sceso per le strade il giorno della festa nazionale ha trovato la morte, a Takhar un donna che aveva messo male l’hijab è stata frustata a morte, a un presunto ladro è stata tagliata la mano. Ufficiali e funzionari governativi, dopo aver chiesto il perdono imposto dai talebani per aver salva la vita, sono stati uccisi. Non si arriva all’aeroporto, ti fermano, sparano. Controllano tutti.

Nulla è cambiato nel loro comportamento, sono solo più forti, più armati, più tronfi, più ricchi, riconosciuti a livello internazionale. Vittoriosi.  ‘Narcos’  miliardari con in mano il più grande traffico di eroina del mondo,  l’unica produzione del paese che aumenta ogni anno in modo esponenziale.

Kabul , la grande prigione. Chi può scappa. Il Governo scappa e i talebani dicono che è opera di Dio. Ci sono i voli umanitari ma non c’è modo di arrivare all’aeroporto. Shazia ci prova. Non vuole andarsene, solo prendere il volo per Herat per andare a sostenere i suoi vecchi genitori terrorizzati. Si mette in marcia con il suo biglietto in mano e il cuore in gola. Ci sono altre persone intorno a lei che fanno la stessa strada con la stessa speranza. I talebani li  fermano, urlano, sparano, qualcuno è colpito. Un talebano la vede, la squadra, sputa. ‘Con te hazara abbiamo parecchi conti da regolare, lo sai?’ Sì lo sa, gli hazara negli ultimi anni sono stati i bersagli più frequenti degli attacchi sanguinari dei talebani.

Shazia non ha altra scelta che scappare. Ogni giorno la stessa scena. Non si passa. I voli umanitari restano mezzi vuoti, chi avrebbe diritto di salirci non può arrivare.

E così la fuga diventa business. Arrivare all’agognato aeroporto si può, basta pagare qualche migliaio di euro. Il talebano incassa e fa passare.

Anche le guide per raggiungere il Pakistan attraverso le montagne costano sempre più care. Man mano che passa il tempo la tariffa lievita. La paura degli altri è sempre un buon affare.

Ma ci sono donne che hanno deciso di restare.

Le donne afghane sono forti. Ho davanti agli occhi una foto mandata da un’amica carissima che non può uscire di casa nella sua città. Una donna che ha appena partorito in un ospedale di Kunduz  dopo un assalto talebano. E’ in un letto sfondato coperto di frammenti di vetro, riflettono la luce tutto intorno a lei, bagliori verdi e macchie di sangue. Cerca di alzare il piede per non ferirsi. Intorno è tutto crollato ma lei è serena e il marito stringe con tenerezza il piccolo.

In questo paese la forza della vita è inarrestabile. L’abbiamo conosciuta questa forza, nelle donne che abbiamo sostenuto negli ultimi 20 anni.

Donne che restano qui. Nonostante gli sciacalli e i lupi. Nonostante il baratro che si apre nel paese, nonostante la morte del futuro, nonostante il rischio altissimo. Quasi si offendono se gli si parla di voli umanitari. La decisione, l’impegno è stato preso tanto tempo fa. La resistenza, quella vera,  non può andarsene. Quel patto non può rompersi.

‘Come sai, dice Roshan, direttrice esecutiva di una grande ong che si occupa di donne e bambini, la vita di molte persone e specialmente quella delle donne attiviste è ad alto rischio. Ma se queste persone vogliono veramente difendere le donne, devono restare accanto a loro in questo momento, e proteggere la loro vita e la loro dignità. Il nostro popolo ha bisogno di noi. Adesso.’

Nadia di Rawa, la storica organizzazione delle donne afghane, che ha attraversato nelle sue battaglie 40 anni di storia del paese, è della stessa opinione. Tutte mi ripetono che conoscono i talebani, hanno vissuto sulla loro pelle quegli anni e hanno trovato il modo di continuare il loro lavoro. Lo faranno anche adesso. Clandestine lo sono già , da molti anni. Niente di nuovo.

‘Noi crediamo che solo un governo democratico e laico possa garantire al popolo afgano la sicurezza, l’indipendenza, l’uguaglianza di genere e la fine delle discriminazioni razziali. Questo è il nostro obiettivo. Per raggiungerlo, l’unico modo è educare il nostro popolo alla libertà, quella vera. Di espressione, di pensiero, di auto-determinazione. Oggi, ovviamente, torniamo a agire dietro le quinte. Lo facevamo già. Oggi, cerchiamo di dare una mano agli sfollati che arrivano a Kabul. Continuiamo e continueremo a insegnare a leggere e a scrivere a bambini e bambine, alle loro mamme. Aiutiamo a creare una coscienza politica afgana, aiutiamo le donne a sentirsi libere di pensare e dire quello in cui credono. ‘

Hanno ancora speranza queste donne, non mollano. Il loro lavoro, lo sanno, ha camminato per il paese, sotto i veli, sopra le pentole, dentro le case, nei campi, sui banchi di scuola. Le donne non sono più le stesse degli anni 90. Sono ottimi semi che danno e daranno frutti. Hanno lavorato molto in questi 20 anni come nei 20 anni precedenti. E’ questa la resistenza.

20 anni. Un tempo lungo per costruire un disastro.

Le donne, dicono, avevano fatto  grandi conquiste sotto l’occupazione occidentale. Nei primi anni c’erano molte speranze, sono state fatte buone leggi. Ma non basta. Le leggi bisogna applicarle. Certo, alcune di loro avevano potuto studiare, lavorare, scegliere. Ma sono poche, quelle delle grandi città, della capitale, quelle nate in famiglie aperte. Alcune di loro hanno pagato caro il loro successo. Ogni giorno, donne in gamba che occupavano posti importanti nella società, venivano uccise, sulla strada di casa, al lavoro, in macchina, dai talebani. Non solo donne, anche uomini. Si sono liberati dei loro nemici prima di prendere il potere. Una specie di purga.

Nel resto del paese l’85% delle donne è analfabeta. Le scuole sono prese di mira, uccidono ragazzine che inseguivano un sogno, come a Dasht- e- Barchi, a Kabul, quartiere hazara. La libertà può costare la vita. Ma le bimbe, anche loro, hanno coraggio e non si lasciano fregare.

“Quando vado nelle case a chiedere di mandare a scuola le bambine della famiglia, diceva Sahar, maestra elementare,  mi sentivo rispondere: le mando sì, se mi puoi garantire che non vengano stuprate, rapite o uccise lungo la strada.”

In questi 20 anni, nel resto del paese,  essere  bambina e donna, voleva dire essere venduta a forza a un uomini vecchi e violenti, essere scambiate con il perdono per gravi delitti,  in conflitti famigliari, significa non avere alcun diritto, soccombere alla violenza, senza poter mai avere giustizia. In questi 20 anni ho sentito tante, troppe storie insopportabili.

Le donne che  restano hanno cercato di porre rimedio, al dolore, alla fatica, all’ignoranza, all’umiliazione. Hanno portato riscatto e forza.

Al potere, nel Parlamento, a capo delle province, gli occupanti americani avevano messo i loro vecchi amici. I potenti warlords che la Cia aveva coccolato e armato negli anni ’80 contro la Russia. Trafficanti di droga, criminali di guerra, fondamentalisti che si erano macchiati dei  più orrendi delitti durante la guerra civile. Il migliore governo per sostenere i diritti delle donne, non c’è dubbio. Come affidare la democrazia ai nazisti. Erano questi ceffi che formavano il governo, che si dividevano il traffico di eroina e il controllo delle province con i talebani. Che oggi, si accordano con loro, purché possano continuare i loro affari dentro e fuori del paese. Così farà anche il figlio di Massud in cerca di gloria paterna. Una guerra civile non conviene. La torta è grande. Il regolamento di conti tra tagliagole fondamentalisti non è resistenza.

Due mesi fa, ho chiesto a Nargez, militante di Rawa, come avrebbero reagito i warlords all’ascesa inevitabile dei talebani. Era convinta che non ci sarebbe stata una guerra tra loro  ma un accordo proficuo. ‘Immaginare talebani e warlords insieme, è un vero incubo. Queste bestie selvagge renderebbero la vita molto più oscura e catastrofica per la nostra gente se si scatenassero insieme.’

20 anni di morti, di bombardamenti, di attentati. Di violenza quotidiana da tutte le parti in gioco. Raid notturni che terrorizzano la popolazione, la guerra fuori dalla porta di casa, la vita che sfugge via e bisogna rincorrerla. Scappare e ancora scappare. Rifugiarsi nei campi profughi dentro Kabul, senza niente in mano. E i talebani intanto si organizzano, si arricchiscono, entrano nei governi di grandi potenze, come Russia, Cina , Turchia, come padroni.

20 anni in cui si è costruito il più grande mercato di stupefacenti del mondo. 93% della produzione mondiale. La produzione aumentava, le fabbriche di eroina crescevano e prosperavano. Sotto gli occhi degli occupanti, indifferenti o forse complici dell’impresa. Ettari e ettari di terreno mangiato dai papaveri. 3 milioni di tossicodipendenti, miseria, morte e aumento della violenza contro le donne. Non si coltiva più niente, solo papaveri. ’Nel mio paese, anche i cani sono drogati’ diceva una ragazzina coraggiosa di un villaggio sotto il controllo talebano.

Due anni di colloqui, dicevano di pace. La pace talebana. Nelle sale di Doha gli americani hanno consegnato un paese, con tutti i suoi civili, chiavi in mano, alla ferocia  talebana. Ne facessero quello che volevano. Dovevano solo comportarsi bene con gli americani, non attaccare, non disturbare i loro interessi. Ci sono pure i mezzi militari, le armi abbandonate, a disposizione.

Quanto stupore in giro per  la vittoria annunciata. Forse perché in questi 20 anni di Afghanistan non si parlava, un velo pietoso sulla vergogna che pochi denunciavano e che ora non si può più nascondere.  Solo loro lo dicevano, le donne che restano e i loro compagni nella battaglia per la democrazia, quella vera.

Doveva per forza andare così.

Gli afghani sanno che i talebani c’erano, ce li avevano sul collo, governavano con le loro leggi, con governi ombra, distruggevano villaggi, imprigionavano le donne nell’assenza di vita. Ogni giorno a Kabul qualcuno saltava per aria. Erano lì, comodamente in agguato, in attesa di raccogliere il raccolto.

Stupiti ancora di più per la velocità dell’impresa.

L’esercito, dopo 20 anni di addestramento, avrebbe dovuto tenere. Il Governo avrebbe dovuto, dopo gli accordi, condividere il potere con i talebani e rispettare i diritti umani. Ma davvero ci credevano? L’esercito non poteva tenere. Non era capace nemmeno di aggiustare un mezzo quando era rotto. Lo avevano sempre fatto i contractors americani.

Basta mettersi nei loro panni. Ma chi, con un briciolo di cervello avrebbe messo in pericolo la famiglia e la vita per il Governo Ghani? Per un governo corrotto e fantoccio degli americani? Meglio scappare o passare coi talebani, i nuovi padroni. Nessuno davvero poteva credere che l’esercito li  avrebbe respinti.

E nessuno crede al loro cambiamento. Sono sempre loro.

Non sono nati qui. Sono stati preparati, istruiti e armati dal Pakistan, dall’Arabia Saudita, dagli Usa. ‘Our bastards’ così li chiamava la Cia. Non solo loro, i bastardi non sono mai mancati. Noi occidentali abbiamo sempre nutrito con passione i fondamentalisti, gli estremisti di ogni genere, per poterli manovrare a piacere. Prima dei talebani c’erano i mujahiddin, ce ne saranno altri.

Le donne  che restano coi lupi e gli uomini che le affiancano nella resistenza, non perdono mai il senso dell’umorismo, di una battuta, nei momenti più cupi. Un coraggio leggero, loro sono così.

Ci scrivono, in mezzo alle tragiche notizie,  la barzelletta del giorno. ‘Previsioni del tempo alla tv talebana. Come sarà il tempo domani? Non si può dire, solo Dio conosce il futuro.’

Noi, possiamo fare solo delle ipotesi, una più brutta dell’altra.

 

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