dal sito Fisac Intesa Sanpaolo
10 dicembre 2020
A cosa serve raccontare una storia? Serve a capire.
A capire come stanno le cose. E a capire se devono per forza continuare ad essere così, o se invece possono cambiare. Serve anche a capire quali strade percorrere per cambiarle.
Ecco: queste sono le storie “dal fronte” delle filiali. Le storie di chi in filiale continua a lavorarci tutti i giorni, ma ha deciso ostinatamente di provare a cambiare le cose. Insieme a voi.
Che fosse semplice il ruolo del direttore non l’avevo mai pensato. Ero tuttavia convinto che il direttore avesse un ruolo.
Sono giovane. Abbastanza da ricordare i miei studi universitari e riscontrare quanto poco assomiglino al quotidiano lavorativo, anche ora che dirigo una filiale di dimensioni significative.
Ovvio, la pratica non corrisponde mai alla teoria e poi non dimentichiamo il CAMBIAMENTO: rapido, incessante, necessario a cui adeguarsi per dimostrare grande capacità manageriale.
Investono su di me, indennità e consolidamento del grado (ancora qualche mese); mi viene ricordato spesso, soprattutto quando i risultati languono mentre altri performano alla grande nonostante le criticità. Al mattino conto i presenti, mi è stato detto così:” Non occuparti di chi manca, concentrati su chi c’è, è solo una questione di organizzazione”. Sarà, ma a me sembrano pochini…
Eppure il modello parla chiaro: il dimensionamento è corretto, qualche assenza è fisiologica. Lo ribadiva il Capo Area in una lync ai gestori, sottolineando il valore dell’accoglienza e della risposta tempestiva al telefono, mentre un gruppo di detrattori si accalcava alle porte imprecando contro il deserto della filiale.
Certo il dato sugli NPS è preoccupante, eppure il gestore base, finita l’operazione con un cliente si occupa di fare entrare il successivo gestendo la ressa e permettendo l’accesso a chi è riuscito a prendere un appuntamento. Quale migliore occasione per proporre in serenità una piccola polizza.
Ebbene, ho dovuto chiedergli questo piccolo sforzo, questo qualcosina in più, ricordando che siamo un’azienda commerciale e la nostra priorità è il budget.
Per questo non posso certo lasciare un gestore in accoglienza (oltre a tutto la postazione non è utilizzabile): le campagne si DEVONO concludere e lo spirito di squadra vuole che ci si occupi anche dei portafogli che, per motivi diversi, non sono presidiati (chiedo scusa al modello). In ogni caso alle porte ci sono quasi sempre io; quando la gente urla devo intervenire, credo faccia ancora parte del ruolo.
Ora che ci penso anche la responsabilità dei controlli è tutta mia e, mentre rimangono un po’ offuscati dalla veemenza commerciale che trova INGIUSTIFICABILE la scarsità di appuntamenti a valore aggiunto nelle agende e richiede ASSOLUTAMENTE un mio intervento (è il mio ruolo!), diventano poi urgentissimi, tanto che si ricorre alla voce del Capo Area perché siano completati SUBITO.
Sono fautore del tempo libero (anche se non ne ho più), per lo sviluppo della creatività e dell’efficienza, quindi soffro nel dover chiedere ai colleghi di fermarsi oltre l’orario. Anzi, non ho neppure bisogno di chiederlo perché il cliente viene prima e anche il budget viene prima e anche la pratica per cui hanno già inviato un reclamo viene prima.
Dopo viene solo la sensazione che ne manchi sempre un pezzo e si viaggi a mille nella direzione comunque, sempre sbagliata.
Siamo tutti un po’ soli nel gestire i conflitti, fuori e dentro di noi. Il senso critico, la capacità di analisi, la forza conoscitiva, la rettitudine di giudizio, la passione civica, sono totalmente offuscati da una malintesa obbedienza. Le priorità si mischiano, si confondono e diventiamo ricattabili di fronte a giganti che urlano, anche se ne riconosciamo la piccolezza.
Ho capito che il mio ruolo è fare risultati, in qualunque modo, in qualsiasi condizione, senza opporre obiezioni.
Credere, o far finta, nella creazione di valore così come, di volta in volta, ci viene presentata. Credere, o far finta, di avere a disposizione tutti gli strumenti per il successo.
Soprattutto lottare contro la sensazione che siamo sempre noi a sbagliare, ingoiare la frustrazione, la mortificazione e rassegnarci all’idea che non approvo, ma mi adeguo.