Cara Collega: DONNE E PROFESSIONALITÀ – A che punto siamo col gender-gap nel mondo del lavoro.
Torna all’indice – La bibliografia si spreca, migliaia di studi, statistiche, indagini ed osservazioni, vengono pubblicate ogni anno sul tema, sempre scottante, della condizione femminile sul luogo di lavoro.
Eppure, nonostante questa attenzione, la reale parità tra uomini e donne, nel lavoro come in altri aspetti della società, è ancora un miraggio.
Talvolta il problema è anche nella lettura dei dati pubblicati e nella loro contestualizzazione, spesso imprecisa e fuorviante.
Se si osserva infatti il dato pubblicato dall’OCSE nel 2019, riguardante il c.d. Gender Wage-Gap (ovvero la differenza tra il salario percepito da un uomo rispetto a quello di una donna), questo ammonterebbe al 5,6%, un dato che potrebbe anche apparire buono in sé, rispetto a dati più critici pervenuti da altri Paesi europei.
In realtà il dato va letto ed interpretato correttamente, in quanto in primo luogo, si riferisce ai soli lavoratori full time, e in secondo luogo nasconde un divario enorme tra settore pubblico (G.W.G. 4,1%) e settore privato, dove il divario salirebbe addirittura ad oltre il 20%.
Questa media inoltre, non considera nemmeno l’allarmante dato della disoccupazione femminile, part-time inclusi.
Se nel settore privato si registrano già enormi squilibri salariali, nel settore dell’imprenditoria e della libera professione i dati sono ancora più allarmanti: dai dati INPS emerge che il reddito medio degli uomini è quasi il doppio di quello delle donne, mentre le libere professioniste iscritte a una delle casse private AdEPP (quindi iscritte a un ordine professionale) guadagnano il 38% in meno dei loro colleghi uomini.
Ulteriori disagi sociali ed economici, vengono ancor meglio alla luce se si accendono i riflettori anche su altri aspetti (età, territorialità, presenza di figli): Una ragazza su quattro con meno di 30 anni non studia e non lavora. Ancora oggi il 16% delle ragazze meridionali non finisce la scuola, contro il 10% del nord e l’8% di chi vive nelle regioni del centro.
Una nota di Istat mostra che oggi la metà delle donne con due o più figli fra i 25 e i 64 anni non lavora. Fra le coppie giovani che hanno figli solo nel 28% dei casi lavorano entrambi a tempo pieno, il che significa che possono permettersi servizi di accudimento. Una donna su dieci con almeno un figlio non ha mai lavorato, per dedicarsi completamente alla cura dei figli. Al sud ha fatto questa scelta una donna su cinque con almeno un figlio, che dichiara di non aver mai lavorato per potersene prendere cura. D’altro canto avere un figlio cambia molto di più la vita professionale di una donna rispetto a quella di un uomo. Alla domanda “fai fatica a conciliare lavoro e famiglia?” la percentuale di uomini e di donne che hanno risposto di sì è la stessa, ma alla prova dei fatti il 38,3% delle madri occupate, oltre un milione, ha dichiarato di aver apportato un cambiamento (part-time, cambio impiego…), contro poco l’11,9% dei padri, circa mezzo milione di uomini.
Una delle conseguenze più allarmanti di questi dati riguarda ovviamente la previdenza: niente lavoro, niente contributi, è ovvio. In Italia la percentuale delle integrazioni previdenziali e sociali riguarda per oltre l’80% le donne. Il 18% delle donne anziane poi, non riceve alcuna forma di pensione, contro il 3% degli uomini. Infine, l’opzione quota 100 per l’accesso al pensionamento ha raccolto pochissime domande femminili, che invece sono state indirizzate tutte verso la c.d. “Opzione Donna”, con un importo medio inferiore ai 1000 euro mensili.
Politiche sociali inadeguate, sostegni alla famiglia ed alla genitorialità insufficienti, divari culturali e sociali sempre ancora troppo determinanti, sono solo alcune delle cause che portano alla situazione appena descritta.
La strada verso la soluzione del problema certamente non è facile, non è immediata e non può che essere ampiamente dibattuta. Fondamentale è continuare a mettere in luce tutte le problematiche riguardanti le donne lavoratrici, mantenendo sempre viva l’attenzione di governi ed istituzioni su questi dati, facendone una priorità nelle trattative sindacali e nei rinnovi contrattuali.
A.C.
(Fonti: Istat, OCSE, Inps, Il sole 24 ore, Eurostat, Infodata)