Riflessioni sui cambiamenti del nostro agire sindacale in epoca di Covid-19: quali le nuove priorità, le difficoltà, le modalità di relazione
Benvenute alle nuove compagne e bentornate alle compagne dello scorso coordinamento, introduco l’ultimo argomento su cui ci piacerebbe confrontarci oggi: la nostra azione sindacale nell’emergenza sanitaria.
Finora abbiamo riflettuto insieme su come l’emergenza sanitaria ha cambiato il nostro modo di lavorare in quanto lavoratrici (bancarie, assicurative, esattoriali ecc.) e la nostra relazione con la clientela, ora vogliamo cambiare sguardo, per capire invece come è cambiata la nostra modalità di fare sindacato nel contesto della pandemia e la relazione con iscritte e iscritti.
Osserviamo innanzitutto cosa è accaduto nella prima fase dell’emergenza, per capire come possiamo affrontare meglio la 2° fase e se da questa esperienza forzata possiamo trarre degli spunti anche per progettare la nostra azione sindacale futura.
Innanzitutto ci sembra di poter dire che l’azione del sindacato è stata tempestiva e ha accompagnato tutta la prima fase dell’emergenza, condividendo – anche a distanza – diversi accordi con le controparti datoriali e comunicandoli in tempi brevi a lavoratrici e lavoratori. La stessa attenzione di certo sarà riservata alla seconda fase, avviata dalla scorsa settimana.
L’azione sindacale nell’epoca dell’emergenza è diventata però ancora più accentrata che in passato. D’altra parte quando le decisioni si devono prendono con rapidità, si finisce gioco forza per saltare dei passaggi, soprattutto se non possono avvenire in condizioni di prossimità.
Questa problematica è emersa chiaramente dappertutto e non solo nel sindacato. Da più parti abbiamo sentito parlare di perdita e crisi della democrazia. Sia chiaro non si tratta della nostra libertà personale (ad esempio della libertà di contagiare), ma di un’azione che rischia di perdere le proprie radici e il senso della rappresentanza.
Il rischio opposto, che si può delineare, è viceversa la frammentazione o peggio ancora un’azione disomogenea su tutto il territorio nazionale, che comporti disparità di tutela.
Allora come si realizza il giusto equilibrio tra questi opposti? – ci siamo chieste e lo domandiamo anche a voi. Dobbiamo riuscire a lavorare in modo attivo su siti produttivi e territori con un quadro chiaro e definito di linee generali nazionali, che devono essere costruite in un dialogo costante con i luoghi di lavoro attraverso l’intermediazione di RSA e RLS.
Nella prima fase sono mancati i raccordi tra:
- il livello di radicamento territoriale e il livello negoziale;
- il livello tecnico (RLS) e politico (RSA);
- e a volte i vissuti di lavoratrici e lavoratori.
Nella 2° fase dobbiamo ripristinare questi legami.
Abbiamo da poco celebrato i 50 anni dallo Statuto dei Lavoratori: molto più delle celebrazioni formali, servono pratiche concrete per valorizzarlo, recuperando ad esempio il ruolo cardine che lo Statuto dei Lavoratori assegna alle RSA nella tutela della salute.
L’accordo confederale prevede dei Comitati Aziendali, un luogo in cui RSA e RLS si confrontano con le parti datoriali sui luoghi di lavoro. Anche nella nostra categoria abbiamo necessità di costruire questi luoghi, in cui RSA e RLS riescano a operare insieme, scambiandosi informazioni tecniche e appoggio politico.
Nel contesto della pandemia sono emersi tanti bisogni legati alla tutela della salute (dispositivi di protezione individuale, disinfezione delle postazioni e degli strumenti di lavoro, sanificazione periodiche o nei casi di contagio, flessibilità degli orari di entrata/uscita ecc.) che non possiamo lasciare nelle mani esclusive delle aziende, perché colleghe e colleghi ci chiedono di intervenire a loro tutela.
Tutto questo lavoro di vigilanza e monitoraggio dobbiamo condurlo a stretto contatto con lavoratrici e lavoratori e dobbiamo trovare il modo di riportare al livello nazionale le casistiche più rilevanti e/o significative, per la stesura di linee guida conformi alle esigenze e alle reali necessità di chi lavora.
Questi compiti sono connaturati ai nostri ruoli di tutela in modo indipendente dal genere e tuttavia è importante che siano ricoperti da compagni e compagne, che potrebbero esercitare sguardi e attenzioni differenziate. Non abbiamo contezza dei numeri, ma l’impressione è che il numero già ridotto di delegate in rapporto all’alto tasso di femminilizzazione della categoria, sia ulteriormente sottodimensionato tra gli RLS, in via prevalente uomini.
In particolare sarebbe interessante riflettere tra noi su come si possa garantire la sicurezza di chi lavora nelle filiali, utilizzando modalità alternative all’uso della forza pubblica, invocata per contenere l’aggressività della clientela nelle scorse settimane.
A differenza della FABI, che purtroppo imperversa nel settore bancario, siamo un sindacato confederale, con l’obbligo di una lettura complessiva degli interessi in gioco. I nostri interlocutori sono spesso famiglie, che attendono da noi i sostegni al reddito, oppure imprese (medio-piccole) che rischiano la chiusura, se non arrivano i finanziamenti. Dobbiamo impegnarci di più a tenere insieme le esigenze della clientela con la sicurezza fisica delle persone che rappresentiamo, cercando di contrattare procedure, organizzazione e carichi di lavoro.
Più che richiamarci all’uso della forza, dobbiamo forse puntare sulla dissuasione, ad esempio continuare ad adottare la richiesta degli appuntamenti, per regolare gli accessi in filiale, è una buona soluzione concreta, per evitare assembramenti e gestire il lavoro in sicurezza.
L’ultimo snodo del mio intervento riguarda la relazione con colleghe e colleghi sui luoghi di lavoro resi virtuali dall’emergenza e l’attenzione alle discriminazioni.
Dopo un primo momento di smarrimento, in cui mi sono immersa nel lavoro operativo, per dimostrare che il lavoro da casa è lavoro a tutti gli effetti, sono riuscita a costruire una nuova relazione con iscritte/i.
Vi racconto questo vissuto personale, perché vorrei che faceste altrettanto, per capire insieme come è cambiato il nostro modo di fare sindacato a distanza.
All’interno della mia giornata lavorativa ho quindi inserito regolarmente dei colloqui con collegh@, che ho iniziato a chiamare a rotazione, come se andassi insieme a loro a bere un tè o un caffè (cosa che peraltro faccio di rado). Da questi colloqui sono emerse situazioni di discriminazioni reiterate, che probabilmente sono sempre accadute, ma che in questa situazione possono avere ricadute pesanti sulla salute (forse anche sulla vita) di alcune persone più fragili o con scarsa professionalità.
Dobbiamo vigilare perché le discriminazioni si possono annidare sulla facoltà di lavorare da casa durante l’emergenza (che come avverte il protocollo confederale deve essere garantita a tutta la compagine aziendale) sulla richiesta di utilizzare ferie o permessi (a volte non ancora maturati), sulle spinte a fruire della sospensione “volontaria”, che dovrebbe essere frutto di una libera scelta, visto che comporta una significativa riduzione del salario.
Dai racconti delle colleghe è emerso con evidenza che godono di minore tecnologia, minori spazi, minori tempi per lavorare a distanza, tanto da preferire (almeno all’inizio dell’emergenza) il lavoro in ufficio, con i rischi di contagio, piuttosto che restare a casa a lavorare con marito e prole al seguito.
Queste differenze di genere, che purtroppo caratterizzano la condizione femminile, sono esplose in occasione del Covid19, ma erano preesistenti, contenute nel diverso significato che il lavoro agile assume per uomini e donne. Eppure non erano emerse in tutta la loro forza nella ricerca sulla digitalizzazione condotta dalla Fisac prima della pandemia, mentre sono state rilevate dall’indagine realizzata dalle Politiche di Genere della CGIL, costruita a partire dai racconti raccolti nel gruppo di FB “Belle Ciao ai tempi del Coronavirus”, a cui abbiamo contribuito anche noi con i racconti che ci avete trasmesso.
Ascoltare i vissuti di colleghe e colleghi è la chiave per una contrattazione non solo presente e tempestiva, ma anche adeguata a rispondere alle esigenze delle persone che rappresentiamo.
L’indagine ISTAT ci dice che 2/3 delle donne hanno continuato a lavorare nella prima fase dell’emergenza, perché occupate nelle professioni dedicate alla cura e nei servizi più che nelle imprese produttive. Questo ha comportato per le donne più rischi, maggiori carichi di lavoro e dosi massicce di stress lavoro correlato.
Ora nella 2° fase stanno rientrando al lavoro più uomini che donne. In parte perché stanno ripartendo le attività industriali, in parte perché le donne restano a casa coi minori: le attività scolastiche non sono infatti considerate essenziali e nemmeno utili al rilancio del Paese.
Oltre a difendere i 50 anni di storia dello Statuto dei Lavoratori, dobbiamo allora lottare per impedire di cancellare 50 anni di conquiste dei diritti delle donne.
L’impressione forte è che tutto sia stato determinato da logiche e lobby di potere (attività essenziali e rilevanti comprese). Purtroppo cultura, donne e giovani non costituiscono lobby e quindi risultano penalizzate.
Se non cambiamo il modo in cui identifichiamo le priorità, tutto sarà come prima, o anche peggio, tutto sarà come nel nostro passato più retrogrado. Quindi lavoriamo insieme, compagne, perché ciò non accada.