Siamo tutti in smart working: o almeno i più fortunati di noi. Ma siamo sicuri che “smart” sia l’aggettivo giusto per definire il lavoro da casa in questa emergenza?
Letteralmente “lavoro agile”, viene utilizzato per indicare una modalità di lavoro non vincolata da orari o da luogo di lavoro, stabilita mediante accordo tra dipendente e datore di lavoro, con la mediazione contrattuale per definire ambiti, doveri e diritti, primo tra i quali, il “diritto alla disconnessione”, a limitare, cioè, il pezzo di vita entro il quale lavorare.
L’Osservatorio del Politecnico di Milano lo definisce”una nuova filosofia manageriale fondata sulla restituzione alle persone di flessibilità e autonomia nella scelta degli spazi, degli orari e degli strumenti da utilizzare a fronte di una maggiore responsabilizzazione sui risultati”. Smart, appunto!
Smart significa “intelligente”. In questo momento “smart” equivale a necessario ed emergenziale, e ha poco di intelligente. E’ davvero poco agile la confusione totale tra privato e lavoro, la condivisione di spazi e strumenti tra conviventi, familiari e famiglia, in una danza tecnologica di bisogni e connessioni.
Smart significa anche “umano”, perché dietro ogni schermo c’è una persona; perché è molto umano il senso di responsabilità che ci attanaglia e ci tiene appiccicati agli smart-screen per dare il meglio possibile, senza limiti né di tempo, né di energie, pensando a chi, invece, lo fa senza la protezione di uno schermo, ma direttamente sul campo, salvando vite o contribuendo, in ogni forma anche invisibile, a soddisfare i nostri bisogni primari.
Smart significa anche “furbo”: attenzione.
Ma rischia di rimanere solo il senso “furbo” nel momento in cui chiuderemo i pc e apriremo le porte di casa.
Sarà solo “furbo” se diventerà la clava con cui abbattere posti di lavoro, in sistemi organizzativi in crisi già da prima dell’emergenza. Sarà solo “furbo” se sarà ancora il solo capitale il fattore ad imporre i ritmi e l’organizzazione della produzione. Sarà solo “furbo” se lascerà indietro le persone. Sarà solo “furbo” se seminerà per strada chi non può essere “smart”, non perché non vuole, ma perché mancano strumenti, infrastrutture e sostegno alle difficoltà, alle diseguaglianze. Sarà solo “furbo” se non daremo forza e priorità ad un’economia del benessere, che passa dal sovvertire il rapporto tra pubblico e privato, in assoluta predominanza del primo. Sarà solo “furbo” se non approfitteremo dello shock per smobilizzare la pubblica amministrazione, sottolineandone il valore del pubblico e smaterializzando la burocrazia, trasformandola in buona amministrazione.
Il soggetto pubblico può, infatti, essere l’attore principale di trasformazioni, in grado di imprimere un indirizzo allo sviluppo, con un progetto di società. E di governarlo, ponendo al centro le Persone, in un’idea di economia della “salute”, socialmente sostenibile (termine che apre scenari più ampi).
“Smart” significa e-commerce con le stesse disuguaglianze di prima, anzi maggiori, poiché i lavori che hanno avuto poco “valore”, e che ora sono cruciali, hanno anche poca sicurezza. Lavori riscoperti come indispensabili e strategici
“Smart”significa anche “click” , cioè trasferire con un click il nostro modello precedente alla realtà attuale: significa perpetrare l’idea che esisto in quanto compro, che l’economia cresce o si mantiene se consumiamo, che consumare vale più dell’essere. Anche dell’essere vivi. Significa che l’idea del profitto come unico motore economico prevarrà sull’idea di redistribuzione: dei sacrifici e della povertà ora, della ricchezza domani.
“Smart” significa anche ricchezza digitale, cioè l’accumulo di dati utilizzabili come merce di scambio e di creazione di nuovi strumenti di potere. Qui è dove si produce e accumula ricchezza che rimane accaparrata in poche mani, ma sfruttando beni comuni. Basti riflettere sulla provenienza di quelle tecnologie all’avanguardia che oggi alimentano la cosiddetta rivoluzione digitale: Internet, GPS, il touch screen, SIRI, algoritmo di Google, tutti strumenti finanziati da Istituzioni pubbliche. Ma lo fa senza restituire niente, senza redistribuire ciò che guadagna alla collettività. Le grandi piattaforme non hanno mai guadagnato come oggi.
“Smart”, allora, significa redistribuzione della ricchezza attraverso una fiscalità severa. Qui non si tratta più di remunerare il fattore della produzione “capitale”. Qui si parla di accaparramento portato dall’esasperazione
emergenziale della nostra vita digitale. La politica fiscale deve operare la redistribuzione, attraverso la trasformazione in welfare pubblico, capace di mettere in atto un’economia della salute e dei servizi, ribadisco, pubblici e retribuiti con equità e giustizia.
“Smart” significa ridefinire il valore del lavoro e il lavoro che ha valore
“Smart” significa ridefinire la filiera produttiva, non in termini di abbassamenti costo, ma di elevazione dell’utilità sociale della stessa.
“Smart” significa ambiente: sterzare verso scelte di salvaguardia ambientale.
“Smart” deve significare “sostenibile”: tutto ciò sarà servito solo se riusciremo ad usare questo shock senza precedenti, che causerà una crisi con effetti sociali ed economici ancora imprevedibili, in una virata in direzione di una società più equa e sostenibile.
Per dare un senso concreto allo smart entrato prepotentemente nelle nostre vite, dobbiamo “pensare il futuro non come la proiezione del passato (questo è lo smart working oggi), ma come un sistema radicalmente nuovo che si fa avanti senza troppi preavvisi e complimenti, ma cambia davvero il mondo, e lo cambia in meglio”.
Bisogna avere un approccio diverso dal tradizionale, che provi anche a percorrere strade che fino ad oggi non è stato possibile ipotizzare, uscire dallo schema conosciuto, dagli equilibri di potere.
Significa un forte investimento nel “capitale umano”.
Perché umana è l’unica risorsa che ci ha salvato la vita. Non la finanza o la borsa o gli strapagati manager. No, la vita, il respiro, il cibo, la sicurezza, la protezione e tutto quello che ci permetterà di uscire verso il mondo domani ce lo hanno restituito esseri umani. Usando anche la tecnologia, la finanza e tutto ciò che è smart, ma come strumento. Non è il fine se non vogliamo che sia la fine.
Bisogna cambiare i parametri di misurazione del benessere: a partire dal valore dell’aria che respiriamo e dell’Altro, Essere Umano. Come me.