Convertito in legge il “decreto dignità”, con modifiche e integrazioni
di Franco Scarpelli, docente di Diritto del lavoro e avvocato in Milano
Con la legge n. 87 del 9 agosto 2018, pubblicata in Gazzetta Ufficiale l’11 agosto 2018, è stato convertito in legge il c.d. “decreto dignità” (decreto legge n. 87 del 12 luglio 2018; v. la scheda di S. Chiusolo, “Tanto rumore per … così poco?”, in Newsletter n. 14/2018.
La legge di conversione ha arricchito i contenuti del provvedimento, che ora si occupa di disciplina dei contratti a termine, somministrazione, licenziamenti nel c.d. contratto a tutele crescenti, esonero contributivo per le assunzioni a tempo indeterminato, prestazioni occasionali (c.d. voucher), ma anche di docenti della scuola, di misure di contrasto alle delocalizzazioni e alla ludopatia e di semplificazione fiscale.
Nella scheda che segue ci limiteremo a dar conto in sintesi delle novità nelle materie di rilevanza più generale, relative al lavoro.
Contratti a termine: introdotto un regime transitorio in due tempi.
L’impianto del decreto, che modifica il d.lgs. 81/2015, è basato sulla riduzione del limite di durata massima, per singolo contratto o complessiva, ora di 24 (e non più 36) mesi, e sull’inserimento della “causale” (ragione oggettiva di impiego, articolata in due ipotesi inserite nell’art. 19 del decr. 81, una relativa alle esigenze estranee all’attività ordinaria dell’impresa, l’altra agli incrementi temporanei dell’ordinaria attività) per i seguenti casi:
a) contratto a termine di durata superiore a 12 mesi;
b) proroga di un contratto a termine, se con la stessa si superano i 12 mesi, e nel limite di quattro (e non più cinque) proroghe;
c) rinnovo di un precedente contratto, qualunque fosse la sua durata.
A tali limiti normativi si aggiunge l’incremento del costo contributivo per i rinnovi del contratto a termine (anche in somministrazione), con aumento del contributo addizionale di cui all’articolo 2, comma 28, l. 92/2012, di uno 0,5% per ogni rinnovo.
Infine l’art. 1, comma 1, lett. c) del decreto ha allungato il termine di decadenza per l’impugnazione del contratto a termine, da 120 a 180 giorni dalla scadenza.
Si ricordi che le novità in materia di contratti a termine, così come quelle sulla somministrazione, non si applicano ai rapporti con le pubbliche amministrazioni, per le quali il decreto 81/2015, ove applicabile, continua a valere nel vecchio testo.
Rispetto alle misure del decreto-legge, la legge di conversione ha specificato il regime sanzionatorio e, cosa più rilevante, ha introdotto una disposizione sul regime transitorio.
Per il primo aspetto, vengono inserite nel d.lgs. 81 due formule diverse: all’art. 19, comma 1-bis, si prevede che la violazione della regola della causale in sede di stipulazione del (primo) contratto, se superiore a 12 mesi determini la trasformazione in contratto a tempo indeterminato “dalla data di superamento del termine di dodici mesi”; all’art. 21, 1° comma, si dice invece che in caso di violazione della regola della causale nelle ipotesi di rinnovo del contratto o di proroga oltre il limite dei 12 mesi, il rapporto “si trasforma in contratto a tempo indeterminato”. La differenza di formula può provocare incertezze applicative e minori tutele soprattutto nella prima ipotesi di violazione (per quanto meno probabile nella realtà).
Assai rilevante, e di impatto immediato, è la previsione di un regime transitorio, diretto a fugare il pericolo di un impatto negativo della nuova disciplina sui rapporti a termine in corso e in scadenza a breve. La legge di conversione ha modificato l’art. 1, comma, 2 del decreto-legge, che inizialmente stabiliva che le nuove regole si applicassero ai nuovi contratti a termine “nonché ai rinnovi e alle proroghe dei contratti in corso alla medesima data”: ora invece il testo ne dispone l’applicazione ai nuovi rapporti e “ai rinnovi e alle proroghe contrattuali successivi al 31 ottobre 2018”.
Di fatto si tratta di una dilazione del regime di rinnovi e proroghe (regime che, soprattutto per i rinnovi, è abbastanza stringente prevedendo sempre la causale indipendentemente dalla durata). Dunque, per fare un esempio, se un lavoratore aveva un contratto a termine (senza causale) di pochi mesi, stipulato prima delle novità normative e in scadenza a settembre 2018, c’era il rischio che il datore di lavoro alla scadenza non lo rinnovasse per timore delle nuove “causali”, che comunque richiederanno un assestamento per opera dei commentatori e della giurisprudenza. Ora, invece, sarà possibile (fino a fine ottobre) stipulare un rinnovo anche senza causale, mentre il nuovo regime si applicherà da novembre, dando tempo alle imprese di riorganizzare la gestione di tali rapporti. Invece, per i nuovi contratti a termine le regole valgono da subito (anche, ritengo, per quanto riguarda rinnovi e proroghe).
Poiché il decreto-legge, con diversa formulazione, è comunque restato in vigore dal 14 luglio all’11 agosto 2018, potrebbe esserci qualche dubbio sul regime di rinnovi o proroghe che siano stati stipulati in quel periodo, probabilmente soggetti alla nuova disciplina limitativa (di cui ancora non era previsto il rinvio temporale stabilito in sede di conversione). Ma di tali ipotesi particolari si occuperanno commentatori e giurisprudenza.
Il nuovo regime transitorio non riguarda invece la regola introdotta dal decreto-legge sul contributo addizionale per i rinnovi, applicabile da subito. Lo stesso vale per il nuovo regime delle impugnazioni (allungamento del termine di decadenza a 180 giorni), efficace da subito: va però va sottolineato che probabilmente il maggior termine deve ritenersi applicabile soltanto ai nuovi contratti; dunque per quelli sorti in precedenza è opportuno e prudente rispettare il precedente termine di 120 giorni.
Rinnovi e causali per la somministrazione.
Il decreto legge aveva sollevato critiche, soprattutto da parte delle agenzie del lavoro, relative all’estensione del regime del contratto a termine anche alle assunzioni fatte dalle agenzie, con tale tipologia di contratto, per i lavoratori da inviare in missione: si ritenevano difficilmente applicabili sia il regime degli intervalli minimi nei rinnovi, sia quello delle causali (nelle ipotesi sopra ricordate).
La legge di conversione è intervenuta sul punto, in primo luogo stabilendo che, nel caso del contratto a termine tra agenzia e somministrato non si applica la disciplina relativa agli intervalli minimi tra un contratto e l’altro (art. 21, comma 2, del d.lgs. 81): norma che in effetti rischiava di provocare un aumento del turnover tra lavoratori somministrati (incrementando invece che diminuendo la precarietà di tali rapporti).
Per le causali, invece, l’art. 2 del decreto-legge (comma 1-ter) le ha confermate, ma prevedendo che le stesse “nel caso di ricorso al contratto di somministrazione di lavoro, si applicano esclusivamente all’utilizzatore”. La disposizione non è chiara e sta già suscitando dibattito tra gli operatori, non essendo chiaro se trasformi il contratto di somministrazione (cioè quello tra utilizzatore e agenzia) in contratto causale (nei casi previsti dall’art. 19 del decreto 81/2015) – ovvero obbligando a giustificare il ricorso alla somministrazione a termine, e non al singolo contratto a termine dei lavoratori somministrati – o se (come ritengo più ragionevole) la causale si applichi sempre e solo al contratto a termine del somministrato, ma debba far riferimento alle ragioni organizzative della somministrazione, relative dunque alla sfera dell’utilizzatore.
Va poi segnalato che la legge di conversione ha reinserito nella disciplina dell’istituto la somministrazione fraudolenta, penalmente sanzionata, già prevista dall’art. 28 del d.lgs. 276/2003, che viene ora riprodotto negli stessi termini dall’art. 38-bis del d.lgs. 81/2015: si prevede che “quando la somministrazione di lavoro è posta in essere con la specifica finalità di eludere norme inderogabili di legge o di contratto collettivo applicate al lavoratore, il somministratore e l’utilizzatore sono puniti con la pena dell’ammenda di 20 euro per ciascun lavoratore coinvolto e per ciascun giorno di somministrazione”.
Il decreto legge ha inserito infine un nuovo tetto comunque per il ricorso a lavoratori a termine e lavoratori somministrati a termine che, cumulativamente (e salva diversa previsione dei contratti collettivi), non possono superare il 30% dei lavoratori a tempo indeterminato in forza presso l’utilizzatore al 1° gennaio di ogni anno. Sul punto la legge di conversione non ha effettuato modifiche.
I licenziamenti nei contratti a tutele crescenti.
Già nella citata scheda di S. Chiusolo si notava, giustamente, come l’intervento di maggior tutela dei lavoratori contro i licenziamento ingiusti (riservato ai lavoratori assunti con la disciplina del “Jobs Act”, decreto 23/2015) fosse in fondo risibile, trattandosi di un contenuto aumento degli indennizzi (applicabile al minimo, elevato da 4 a 6 mensilità, e portato a 36 nel massimo); il fatto che l’indennizzo rimanga rigidamente collegato all’anzianità di servizio del lavoratore fa sì che il tanto sbandierato aumento dell’indennizzo oltre le 24 mensilità si applicherà solo fra molti anni (nella generalità dei casi, non prima del marzo 2027!).
La legge di conversione si è limitata a colmare una lacuna del decreto, che aveva modificato gli importi degli indennizzi previsti per il caso di licenziamento ingiustificato dall’art. 3 del d.lgs. 23/2015, ma lasciando ferme le altre indennità previste dalla disciplina del 2015, e in particolare l’indennità con esenzione fiscale oggetto della procedura conciliativa prevista dall’art. 6 del decreto. La legge di conversione ha ora provveduto a innalzare minimo e massimo anche dell’indennità ex art. 6, già fissati in 2 e 18 mensilità e ora elevati a 3 e 27 mensilità (sempre in relazione all’anzianità). Non vengono invece modificati i valori minimi e massimi dell’indennizzo previsto per i vizi formali e procedurali, che rimangono fissati in 2 e 12 mensilità (art. 4).
La modifica dell’art. 6 rende ovviamente più conveniente il ricorso alla conciliazione post-licenziamento, in alternativa a una più rischiosa causa di impugnazione. Rimane il fatto (e l’ingiustizia) che una simile opportunità di sostegno alla conciliazione, con eliminazione degli oneri fiscali (e che comporta peraltro impiego di risorse pubbliche), venga riconosciuta solo alle parti di un rapporto disciplinato dal decreto del 2015 (e non anche, per esempio, al lavoratore assunto prima del 2015 da una piccola impresa, che egualmente percepisce indennizzi molto bassi).
Le materie aggiunte in sede di conversione: modifiche (minime) sui voucher e nuovi incentivi alle assunzioni.
Nonostante il gran clamore sollevato, l’intervento sulla disciplina delle prestazioni occasionali (c.d. voucher), che non veniva toccata nel decreto-legge ma è stato formulato solo in sede di conversione, è abbastanza limitato.
La disciplina è quella dell’art. 54-bis del d.l. 50/2017 (convertito dalla l. 96/2017): la modifica più significativa è quella che allarga il campo di utilizzo di questa forma di lavoro alle aziende alberghiere e alle strutture ricettive del turismo che hanno fino a 8 dipendenti (e non più 5), quando utilizzino i soggetti previsti dal comma 8 dell’art. 54-bis (pensionati, studenti infra-venticinquenni, persone in stato di disoccupazione, percettori di prestazioni di sostegno al reddito).
Vi è anche una modifica al comma 17 dell’art. 54-bis che presenta qualche rischio: viene ampliato (per gli imprenditori agricoli, le aziende alberghiere o strutture ricettive del turismo e gli enti locali) l’arco temporale per il quale vale la comunicazione preventiva da parte dell’utilizzatore di prestazioni occasionali: in questi casi basta indicare la durata delle prestazioni, che potranno essere svolte in un arco temporale non superiore a dieci giorni. Si potrebbero riproporre, in questa ipotesi, le critiche già rivolte all’istituto nel vecchio regime del lavoro accessorio sulla possibilità di un utilizzo frodatorio per coprire ricorso al lavoro nero, formalizzato solo per alcune ore grazie ai “voucher”.
Infine, la legge di conversione ha aggiunto al decreto un art. 1-bis diretto a rinnovare, per gli anni 2019 e 2020, un regime di abbattimento degli oneri contributivi per le assunzioni a tempo indeterminato, che segue e riprende lo schema delle precedenti discipline degli scorsi anni (l. 190/2014, art. 1 commi 118 ss.; l. 208/2015, art. 1 commi 178 ss.; l. 205/2017, art. 1, commi 100 ss.). In questa occasione, però, la platea dei beneficiari viene limitata ai lavoratori che all’atto dell’assunzione non abbiano compiuto il trentacinquesimo anno e non siano stati occupati a tempo indeterminato con il medesimo o con altro datore di lavoro.