“Ai diritti e alle loro dinamiche, bisogna dunque guardare come a un processo mai compiuto, soprattutto nel senso che i diritti sono perennemente insidiati, sono sempre a rischio, e perciò esigono strategie di difesa e di attivazione”
Stefano Rodotà, “Il diritto di avere diritti”
Scenario mondiale
A Ginevra il 27.9.2016 esperti dei diritti umani delle Nazioni Unite hanno sollecitato tutti gli Stati ad abrogare leggi restrittive sull’aborto, qualsiasi politica e/o misura punitiva e barriere discriminatorie per accedere ai servizi di salute riproduttiva sicuri, nonché a depenalizzare l’aborto e fornire servizi in modo legale, sicuro ed economico. Secondo l’OMS (Organizzazione Mondiale Sanità) si registrano ogni anno circa 22milioni di aborti non sicuri e circa 47mila donne muoiono per complicazioni. Più del 40% degli aborti non sicuri si registrano nei paesi in via di sviluppo e riguardano le giovani donne e le adolescenti tra i 15 anni e i 24 (numeri ufficiali, non effettivi).
Il 28 settembre come Giornata Internazionale per l’Aborto Sicuro e Legale nasce da una iniziativa partita dall’America Latina e dai Caraibi, che oggi coinvolge centinaia di organizzazioni in tutto il mondo.
Quest’anno tre delle più importanti ONG presenteranno una Dichiarazione Congiunta alla 36° sessione del Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite, che si tiene in questa settimana. Tra le ONG si segnala in particolare la IPAS, nata negli Stati Uniti ma ora radicata anche in altri paesi del Sud America, che ha il fine di tutelare la salute riproduttiva delle donne, promuovendo l’accesso a contraccettivi e aborti in sicurezza. Verrà inoltre consegnato il Report dell’anno 2016 sui casi analizzati in vari continenti, per denunciare la mancanza di applicazione e tutela dei diritti delle donne.
L’accesso alla contraccezione dovrebbe essere universale e garantito così come l’interruzione volontaria di gravidanza, per dare maggiore libertà di scelta alle donne. Le restrizioni legali sono infatti tra le cause dei numerosi aborti clandestini, praticati in condizioni igieniche spesso pericolose, quando non mortali per le donne costrette a ricorrervi. Eppure l’aborto clandestino è un problema di salute pubblica, riconosciuto da quasi tutti i governi e secondo l’OMS è anche una questione di diritti umani. I Governi hanno l’obbligo, secondo le legislazioni nazionali e le convenzioni internazionali sui diritti umani, di garantire i più alti standard di tutela della salute, di non attuare discriminazioni e di garantire ad ogni persona di non dover subire trattamenti inumani e degradanti. Diverse le situazioni presenti nei vari paesi, qui citiamo soltanto due casi.
Nello Sri Lanka l’aborto non è consentito ed è in corso di votazione un emendamento, che esclude i seguenti casi:
- Quando la madre porta in grembo un feto con una malformazione congenita;
- Quando una donna rimane incinta a seguito di uno stupro.
La legge in vigore costringe infatti le vittime di stupro e incesto (alcune di soli 12 anni) a portare avanti la gravidanza. L’aborto è ammesso solo in caso di pericolo di vita della madre. Nonostante ciò i vescovi sono insorti contro questa proposta di modifica.
In Polonia le donne sono state in prima linea nel contrasto a una proposta di legge, presentata da parlamentari di destra, che impediva l’aborto nei casi di malformazione del feto. Il progetto, presentato dal comitato “Save Women”, prevede invece di includere nella normativa i seguenti punti:
- Obbligo degli Ospedali e del Fondo Sanitario di pubblicare un elenco dei medici obiettori di coscienza;
- Obbligo degli Ospedali di trovare un medico sostitutivo, nel caso il medico incaricato sia obiettore.
Scenario nazionale
Nel nostro Paese la CGIL, tramite il Dipartimento di Politiche di Genere, aderisce alla giornata internazionale per l’aborto sicuro e legale e comunica a tutte le strutture l’impegno della nostra organizzazione in continuità con la battaglia in difesa dell’Interruzione Volontaria di Gravidanza, battaglia che ci ha visto protagonisti in questi anni fino al ricorso al Consiglio d’Europa per la mancata applicazione della Legge 194 causata dalla presenza esponenziale di medici obiettori. La relazione del Ministero della Salute ha verificato la presenza di oltre il 70% di ginecologi obiettori, affermando tuttavia che il numero dei non obiettori è adeguato alle richieste di IVG.
La CGIL ribadisce l’importanza di proseguire nell’impegno in difesa della piena applicazione della legge, per costruire una cultura di maggiore consapevolezza delle donne rispetto alla libertà di scegliere e decidere della propria vita e della propria sessualità riproduttiva in una società sempre più patriarcale e sessista.
Dal punto di vista legislativo un decreto del 2016 ha tra l’altro previsto un inasprimento delle sanzioni amministrative per il reato di aborto clandestino: da € 51 si è passati ad una cifra tra i 5mila e i 10mila euro, ignorando completamente le ragioni per cui la Legge 194 prevedeva una multa puramente simbolica.
La Cgil chiede un impegno del Governo a:
- realizzare un monitoraggio della domanda non esaudita;
- conferire responsabilità dirigenziali nelle strutture ospedaliere a chi garantisce l’applicazione della legge e la presenza adeguata di personale non obiettore;
- intervenire sui cattedratici cattolici, che rifiutano di includere l’IVG nella formazione dei giovani medici;
- restituire pieno ruolo ai consultori familiari con personale e beni strumentali adeguati.
Di fatto la Cgil chiede la piena applicazione della Legge 194, che quasi 40 anni fa era riuscita, in maniera puntuale, programmatica e soprattutto rispettosa delle scelte delle donne, ad affrontare tutte le problematiche del fenomeno (prevenzione, cura, interventi) attraverso una mediazione difficile tra la libertà delle donne e l’obiezione di coscienza del personale medico.
L’equilibrio, raggiunto a livello legislativo, risulta tuttavia sconvolto nella pratica dalla presenza straordinaria di medici obiettori. L’obiezione di coscienza è una scelta molto facile da compiere per il medico, che non è obbligato a giustificare e nemmeno a motivare la sua condotta, e soprattutto è una scelta remunerativa, perché i pochi medici non obiettori sono costretti a svolgere esclusivamente questo compito e per questo motivo sono esclusi dai percorsi di carriera. Il ricorso della CGIL al Comitato di Strasburgo è stato infatti concepito non solo a tutela della salute delle donne, ma anche dei medici non obiettori. Vinto il ricorso, con il pronunciamento della Corte Europea, che intima all’Italia il pieno rispetto della Legge 194, non possiamo tuttavia considerarci del tutto soddisfatti, di fronte alle reazioni negazioniste del governo. E’ quindi necessario dare ancora voce a questa battaglia, attraverso la mobilitazione sui territori nella giornata del 28 settembre, per sensibilizzare l’opinione pubblica e richiamare l’attenzione su questo problema, che rende la scelta delle donne di interrompere una gravidanza non desiderata un percorso ad ostacoli, irto di difficoltà a volte insuperabili.
Inoltre ci sono altre ragioni che ci fanno ritenere cruciale questa battaglia, che vanno ricercate ancora nel mondo del lavoro, campo di azione specifico del sindacato. La “Relazione annuale sulle convalide delle dimissioni e risoluzioni consensuali delle lavoratrici e lavoratori”, redatta dall’Ispettorato Nazionale del Lavoro, evidenzia l’enorme problema delle lavoratrici madri. Nel 2016 su 35mila dimissioni e risoluzioni consensuali il 78% ha riguardato le lavoratrici madri e di queste oltre il 50% giovani donne (19mila tra i 26 e i 35 anni – 11mila tra i 36 e i 45 anni) con una anzianità di servizio fino ad un massimo di 10 anni. Sempre dall’analisi dei dati concernenti il numero dei figli e le motivazioni della rinuncia al lavoro, emerge la persistenza di una difficoltà di conciliazione tra vita familiare e lavorativa, che rappresenta il 60% delle risposte.
Questo dato, legato più strettamente al mondo del lavoro, non vuole sminuire le ragioni legate alla lotta per la difesa della libertà di decidere delle donne, ma piuttosto aggiungere un ulteriore tassello al mosaico dei diritti, che dobbiamo ancora garantire alle donne. La piena applicazione della Legge 194 deve garantire alle donne la libertà di scegliere se e quando essere madri e parimenti le politiche di conciliazione devono garantire la libertà delle donne di conservare il lavoro e le opportunità di carriera, nel momento in cui scelgono liberamente la maternità. Il diritto alla salute e il diritto all’interruzione volontaria di gravidanza devono quindi essere coniugati con il diritto al lavoro delle madri. In questo modo si potrebbe preservare l’importante contributo delle donne ai processi produttivi, una ricchezza irrinunciabile per il nostro Paese e si potrebbe indirettamente favorire la maternità, senza frapporre ostacoli e sanzioni all’esercizio del libero arbitrio, ma garantendo le condizioni per una scelta libera e consapevole.
Roma, 27 settembre 2017
ESECUTIVO NAZIONALE DONNE
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