Dopo l’entrata in vigore delle nuove norme sui licenziamenti del 2012, la giurisprudenza ha elaborato alcune interpretazioni che hanno fornito una chiave di lettura più favorevole ai lavoratori di tali norme di legge.
Peraltro, è necessario evidenziare come la tutela derivante da una legge in materia di licenziamenti illegittimi è una tutela ben diversa rispetto a quella che può derivare da una sentenza, fosse anche della Corte di Cassazione, che interpreta una legge a favore del lavoratore. La prima ha carattere generale, la seconda vale soltanto nel caso deciso dalla sentenza in questione.
Una delle prime tematiche affrontate dalla giurisprudenza è stata la questione del licenziamento illegittimo perché il fatto contestato al lavoratore non sussiste; per tale caso, ricordiamo come la legge del 2012 preveda la reintegra.
A questa tematica deve essere affiancata quella della valutazione da parte del giudice della proporzione del fatto contestato rispetto alla sanzione del licenziamento. Al riguardo, è necessario ricordare come prima dell’entrata in vigore della legge n. 92/2012, la giurisprudenza di Cassazione fosse consolidata nel ritenere che fosse necessaria la valutazione della proporzione fra i fatti contestati e la sanzione, secondo il principio stabilito dall’art. 2106 codice civile (Corte di Cassazione sez. lavoro, sentenze 2/11/2015 n. 22353; 2/9/2015 n. 17366; 17/7/2015 n. 15058; 25/6/2015 n. 13158).
Una delle prime pronunce sull’argomento del fatto materiale piuttosto che giuridico, è l’ordinanza del Tribunale di Bologna del 15/10/2012 – che ha avuto un qualche rilievo mediatico – riguardante un licenziamento disciplinare originato da un’email inviata da un lavoratore ad un dirigente ritenuta dall’azienda oltraggiosa e tale da far cadere il vincolo fiduciario. Il Tribunale ha dichiarato il licenziamento illegittimo per l’insussistenza del fatto contestato; in particolare, il Tribunale ha fatto riferimento non al fatto materiale (lo scambio di email, oggettivamente esistente) bensì al fatto giuridico (il contenuto dell’email in cui il lavoratore dichiarava che “parlare di programmazione in quest’azienda è come parlare di psicologia con un maiale”), fatto ritenuto privo di valenza giuridica.
La sussistenza o meno del fatto alla base del licenziamento e le possibili interpretazioni del fatto medesimo – inteso in senso giuridico oppure in senso materiale – è alla base di diverse pronunce, dopo quella di Bologna del 15/10/2012, con soluzioni assai diverse (La tesi prospettata dal Tribunale di Bologna, secondo cui il licenziamento è illegittimo quando è basato su fatto materiale privo di valenza giuridica, è stata seguita dalle seguenti ordinanze: Tribunale di Milano 28/1/2013; Tribunale di Voghera 18/3/2013; Tribunale di Milano 20/3/2013. La prima delle tre sentenze citate ha anche effettuato una valutazione circa la proporzione del licenziamento rispetto ai fatti contestati. L’ordinanza del Tribunale di Genova del 16/11/2012 ha invece ritenuto sufficiente la presenza del mero fatto materiale per considerare legittimo il licenziamento).
L’argomento è quindi giunto all’esame della Corte di Cassazione, con diverse sentenze.
La prima è stata la sentenza n. 23669/2014, che riguardava il caso di un direttore di una filiale di banca, licenziato per una serie di presunti comportamenti irregolari ripetuti in modo abituale: secondo la banca, il direttore incaricava gli impiegati della filiale di fargli la spesa in orario di lavoro, faceva utilizzare agli stessi le proprie chiavi, password ed il badge per segnalare l’ingresso e l’uscita dal lavoro. Peraltro, la Corte d’Appello di Venezia aveva dichiarato illegittimo il licenziamento e disposto la reintegra del lavoratore, in quanto i fatti contestati non erano stati provati, specie per la circostanza dell’abitualità.
La Corte di Cassazione ha confermato la sentenza d’appello – confermando quindi la reintegra – ma senza alcuna necessità nella causa in esame, ha ritenuto d’inserire un obiter dictum che ha smentito l’interpretazione giurisprudenziale favorevole ai lavoratori iniziata dal Tribunale di Bologna. In particolare, la Suprema Corte ha affermato che “La reintegrazione trova ingresso in relazione alla verifica della sussistenza / insussistenza del fatto materiale posto a fondamento del licenziamento (…) con la conseguenza che esula dalla fattispecie che è alla base della reintegrazione ogni valutazione attinente alla proporzionalità della sanzione rispetto alla gravità del comportamento addebitato.”
E’ appena il caso di osservare come il principio espresso nella sentenza n. 23669/2014 sia passato tel quel nella formulazione dell’art. 3 del decreto legislativo n. 23/2015 “jobs act”, laddove prevede i casi di licenziamento illegittimo comportanti la reintegra.
Peraltro, la Corte d’Appello di Venezia con la sentenza n. 647/2016, è ritornato sullo stesso caso in quanto il licenziamento è stato reiterato. Infatti, nel dicembre 2014 – pochi giorni dopo il deposito della sentenza di Cassazione – la banca ha nuovamente licenziato il dipendente, per i medesimi fatti ma contestati singolarmente e non presentandoli come una condotta abituale; inoltre, erano stati aggiunti tre nuovi episodi rispetto alla precedente contestazione.
La Corte d’Appello di Venezia ha dichiarato il secondo licenziamento nullo per abuso di diritto e motivo illecito: in primo luogo, il datore di lavoro aveva esaurito il potere disciplinare con il primo licenziamento riguardante gli stessi fatti e già dichiarato illegittimo; in secondo luogo, il licenziamento era ritorsivo per il contenuto e l’immediatezza rispetto alla sentenza sul precedente licenziamento; infine i nuovi episodi contestati erano di modesto rilievo e tali da far apparire sproporzionato il licenziamento.
La successiva sentenza della Corte di Cassazione n. 2692/2015, ha segnato un primo revirement rispetto a quella prima citata, almeno per quanto riguarda l’aspetto della proporzionalità. Infatti, con tale pronuncia, la Suprema Corte ha confermato la sentenza di merito della Corte d’Appello di Napoli che aveva reintegrato un lavoratore licenziato per una presunta insubordinazione. Il fatto riguardava le offese rivolte al superiore da parte di un lavoratore che si riteneva vittima di una maliziosa delazione.
La Cassazione ha considerato corretta l’interpretazione delle Corte d’Appello, che aveva considerato il licenziamento sproporzionato ai fatti contestati, derubricandolo quindi ad una sanzione disciplinare conservativa. Ciò in considerazione del fatto che il contratto collettivo di categoria (nella specie quello dell’industria metalmeccanica), parifica all’insubordinazione grave, giustificativa del licenziamento, reati accertati in sede penale quali il furto e il danneggiamento.
Le due sentenze n. 14446/2015 e n. 17366/2015 della Corte di Cassazione riguardano i casi di due direttori di banca: il primo era stato licenziato perché accettava regali di valore dai clienti, il secondo per gravi irregolarità nell’erogazione del credito. La Suprema Corte ha considerato legittimi entrambi i licenziamenti; in particolare, ha considerato come corrette ed esaustive le valutazioni fatte – rispettivamente – dalla Corte d’Appello di Roma e dalla Corte d’Appello di Napoli riguardo alla proporzione fra condotta sanzionata e licenziamento. Tale aspetto è da segnalare – anche se le sentenze sono negative per i lavoratori – in quanto dimostra l’attualità del principio di proporzione di cui all’art. 2106 codice civile anche nei licenziamenti disciplinati dalla legge “Fornero” del 2012.
Due pronunce di particolare rilievo sull’argomento dei licenziamenti ai sensi della legge “Fornero” sono le due sentenze della Corte di Cassazione n. 20540/2015 e n. 20545/2015.
La sentenza n. 20540/2015 riguarda un licenziamento per giusta causa che fece seguito ad una contestazione per un presunto comportamento “vessatorio e vendicativo” di una lavoratrice nei confronti dell’amministratore delegato della società datrice di lavoro; tale comportamento si sarebbe manifestato con doglianze, insinuazioni e polemiche esternate nei confronti di altri dirigenti e con i vertici della società.
Il Tribunale di Milano aveva dapprima confermato il licenziamento, ma successivamente la Corte d’Appello di Milano l’aveva dichiarato illegittimo, in quanto il comportamento contestato non aveva rilevanza disciplinare. La società presentava ricorso in Cassazione, sostenendo in particolare che i fatti contestati erano realmente avvenuti e che la valutazione giuridica dei fatti stessi era estranea alla nuova formulazione della “legge Fornero”. La Suprema Corte ha dichiarato che “l’irrilevanza giuridica del fatto equivale alla sua inesistenza materiale e dà perciò luogo alla reintegrazione” respingendo così il ricorso e confermando l’illegittimità del licenziamento in questione.
La sentenza n. 20545/2015 ha invece affrontato il licenziamento di un lavoratore della TELECOM al quale era stato contestato: l’inserimento nel sito internet e nel profilo Facebook di un’impresa di ristorazione, dei numeri di telefono mobile e di fax assegnati al lavoratore stesso dal datore di lavoro; l’indicazione della TELECOM come cliente dell’impresa di ristorazione. Il datore di lavoro giustificò il licenziamento con un presunto “grave nocumento morale o materiale” arrecato all’azienda da tali comportamenti.
La Cassazione ha osservato come l’accertamento del “nocumento grave” sia necessario al fine di stabilire l’esistenza dell’illecito disciplinare in questione: “l’accertamento della sua mancanza determina quell’insussistenza del fatto addebitato al lavoratore, prevista dalla legge (…) quale elemento costitutivo del diritto al ripristino del rapporto di lavoro”. Nella sentenza impugnata non si riscontrava l’accertamento dei fatti costituenti “un grave danno”, mancava quindi uno degli elementi costitutivi dell’illecito disciplinare e di conseguenza la sentenza è stata cassata con rinvio ad altro giudice, che dovrà attenersi al principio di diritto enunciato dalla Suprema Corte.
Si tratta di due sentenze di estrema importanza, sotto diversi punti di vista.
In primo luogo, la sentenza n. 20540/2015 affronta il tema della distinzione fra fatto materiale e fatto giuridico alla base di una contestazione disciplinare, che al pari del principio di proporzione fra fatti contestati e sanzione è un argomento decisivo per stabilire la legittimità o meno del licenziamento ai sensi della legge del 2012 e disporre di conseguenza la reintegrazione del lavoratore. La Cassazione, come abbiamo visto, accoglie la tesi proposta dal Tribunale di Bologna con la nota ordinanza del 15/10/2012.
In secondo luogo, la citata sentenza potrebbe addirittura mettere in discussione una delle norme più dubbie del decreto legislativo n. 23/2015, “jobs act”, che prevede la reintegra sul posto di lavoro solo nel caso in cui il fatto materiale contestato sia inesistente. L’affermazione che l’irrilevanza giuridica del fatto equivale alla sua inesistenza materiale, appare infatti applicabile anche al nuovo ed insidiosissimo testo del “jobs act”.
Infine, la sentenza n. 20545/2015 nega l’esistenza del fatto contestato solo quando è provata l’esistenza di tutti gli elementi costitutivi previsti dalla legge o dal contratto collettivo: nel caso concreto non era provato il “grave danno” ed il licenziamento è stato quindi dichiarato illegittimo. Anche in questo caso, la tesi sostenuta dalla Cassazione è applicabile alla norma del “jobs act” che abbiamo citato.
Egualmente significativa è la sentenza n. 23073/2015, con cui la Corte di Cassazione ha affrontato il caso di una lavoratrice licenziata per una presunta ed ingiustificata emissione di scontrini non fiscali dalla cassa di una piscina, emissioni non seguite dal relativo incasso. La Suprema Corte ha confermato la sentenza della Corte d’Appello di Bologna, che – al pari della sentenza del Tribunale di Bologna – aveva stabilito l’illegittimità del licenziamento e la reintegra della lavoratrice.
La Cassazione – valutando le motivazioni della sentenza d’appello – si è focalizzata sulla mancanza di prove riguardo ai fatti addebitati dal datore di lavoro: “i giudici d’appello hanno osservato che, a fronte della contestazione di un’abnorme emissione di scontrini non fiscali, non era stata raggiunta la prova della sistematicità della condotta, della sua volontarietà e ascrivibilità al lavoratore, mentre, con riguardo ai due episodi accertati (…..) non vi era prova certa dell’impossessamento delle relative somme, essendo rimasto accertato un mal funzionamento dell’apparecchio (…) e l’avvicendamento di dipendenti alla cassa senza previa quadratura della stessa”.
Bisogna osservare come il ricorso presentato in Cassazione dall’impresa, sostenesse la tesi per cui il numero degli scontrini non fiscali emessi fosse sufficiente a delineare una condotta lesiva del rapporto fiduciario esistente tra le parti e come tale valida come giusta causa di licenziamento, senza necessità di altre valutazioni. La tesi datoriale era quindi nel senso che nell’ambito della “legge Fornero” fosse sufficiente il mero fatto materiale, a prescindere sia dalla valenza giuridica dello stesso, sia da qualunque valutazione della proporzione fra il fatto contestato ed il licenziamento. La tesi in questione è stata del tutto negata dalla Cassazione: il fatto materiale dell’emissione di scontrini non fiscali è insignificante se non c’è prova del conseguente fatto giuridico della conseguente appropriazione di denaro.
La sentenza n. 10950/2016 della Corte di Cassazione affronta in modo specifico il principio della proporzione fra fatti contestati e licenziamento secondo la disciplina della “legge Fornero”.
Il fatto riguardava un licenziamento comminato per violazioni dell’orario di lavoro. La sentenza della Corte d’Appello di Roma aveva confermato il licenziamento, senza affrontare il tema della proporzione in quanto non era stato oggetto di uno specifico motivo di reclamo.
La Suprema Corte ha cassato la sentenza di appello, affermando che “per costante giurisprudenza di questa Corte Suprema, il giudice di merito, investito del giudizio circa la legittimità d’un provvedimento disciplinare, deve necessariamente valutare la sussistenza o meno del rapporto di proporzionalità tra l’infrazione del lavoratore e la sanzione irrogatagli, a tal fine tenendo conto delle circostanze oggettive e soggettive della condotta del lavoratore e di tutti gli altri elementi idonei a consentire l’adeguamento della disposizione normativa dell’art. 2119 c.c. – richiamato dall’art. 1 della legge n. 604/66 – alla fattispecie concreta.”
Con la sentenza n. 16214/2016 la Corte di Cassazione ha affrontato il caso di un licenziamento, intimato per mancato superamento del periodo di prova. In particolare, il contratto di lavoro prevedeva un periodo di prova di 3 mesi; l’impresa aveva proposto una proroga di altri 2 mesi, proroga non sottoscritta dalla lavoratrice; al termine del periodo di provo – non contrattualizzato – era scattato il licenziamento. La Suprema Corte ha confermato la sentenza della Corte d’Appello di Ancona, dichiarando il licenziamento illegittimo e disponendo la reintegra sul posto di lavoro.
Le argomentazioni svolte dalla Corte di Cassazione a motivazione della sentenza sono numerose.
In primo luogo, il patto di prova deve essere formalizzato per iscritto “ad substantiam” ai sensi dell’art. 2096 codice civile; nel caso concreto la proroga mancava della forma richiesta e come tale giuridicamente inesistente.
Inoltre, la Cassazione ha ripreso la tesi della sentenza n. 5404/2013 (che non a caso è relativa ad un licenziamento antecedente alla “legge Fornero”), secondo la quale l’invalidità della pattuizione del periodo di prova rendeva privo di causa il licenziamento motivato dal mancato superamento del periodo di prova. La mancanza di causa comporta il diritto alla reintegra anche ai sensi della “legge Fornero” del 2012. Tale motivazione – che deriva dal giudizio secondo cui “il richiamo al mancato superamento del periodo di prova è totalmente inidoneo a costituire giusta causa o giustificato motivo” – è di estremo interesse, in quanto sembra estendere le previsioni di reintegra della “legge Fornero”: i casi del fatto contestato inesistente oppure punito con una sanzione conservativa sarebbero quindi esemplificativi ma non esaustivi.
La sentenza n 18418/2016 della Corte di Cassazione ha affrontato il caso di un lavoratore licenziato per un presunto comportamento “litigioso e maleducato” nei confronti dei colleghi, per aver rifiutato di concordare la riduzione di un superminimo salariale e per aver lamentato di essere vittima di mobbing. Il Tribunale di Bergamo e la Corte d’Appello di Brescia avevano dichiarato il licenziamento illegittimo e reintegrato il lavoratore, considerando i fatti contestati privi di valenza giuridica.
L’impresa aveva fatto ricorso in Cassazione, sostenendo che i fatti materiali contestati al lavoratore erano realmente avvenuti e ciò per la legge n. 92/2012 sarebbe sufficiente per negare la reintegra sul posto di lavoro.
La Cassazione ha respinto ancora una volta questa tesi, richiamando espressamente la tesi giuridica contenuta nella sentenza n. 20540/2015: “l’irrilevanza giuridica del fatto contestato – pur accertato – equivale alla sua insussistenza materiale e dà perciò luogo alla reintegrazione.” Peraltro, dopo il richiamo al tema del fatto materiale e del fatto giuridico, tale sentenza esclude ai fini della reintegra la rilevanza della proporzione fra fatto contestato e licenziamento.
Il principio giuridico espresso nella pronuncia n. 20540/2015 sopra citata è stato ripreso in diverse sentenze successive della Corte di Cassazione, che in base a tale principio hanno dichiarato illegittimi i licenziamenti impugnati con conseguente reintegra dei lavoratori.
Fra le altre la sentenza n. 25745/2016, riguardante un lavoratore licenziato in assenza di contestazione, caso che la Suprema Corte ha ricondotto alla fattispecie dell’insussistenza del fatto contestato; la sentenza n 13799/2017, realtiva ad una lavoratrice licenziata per aver postato su facebook commenti relativi al datore di lavoro, considerati dallo stesso come oltraggiosi e diffamatori; la sentenza n 13383/2017 che ha affrontato il caso di un lavoratore licenziato perché nella lettera di controdeduzioni ad una contestazione disciplinare aveva sostenuto che il superiore gerarchico “conduceva una guerra contro di lui”, affermazione considerate dal datore di lavoro come “un ingiusto e grave nocumento all’onore, alla reputazione e all’immagine del suo superiore (…) e della società nel suo complesso.” (La citata sentenza n. 13383/2017 della Corte di Cassazione è degna di attenzione anche perché ha preso in esame i limiti posti al diritto di difesa e quindi la valenza materiale e giuridica del fatto contestato. In ordine al diritto di difesa, ha dichiarato che non è condizionato ai requisiti di verità, continenza e pertinenza, che invece attengono ai diritti di cronaca e di critica; inoltre, ha escluso che la difesa potesse configurare inadempimenti contrattuali di sorta o peggio azioni delittuose. Chiarito che il lavoratore ha esercitato un legittimo diritto di difesa, la Cassazione è passata alla valutazione del fatto contestato, approdando alle conclusioni sopra descritte.)
La sentenza n. 2513/2017 della Corte di Cassazione prende avvio da un trasferimento disposto nei confronti di una lavoratrice con decorrenza 19 aprile 2012; l’interessata aveva rifiutato il trasferimento; l’azienda aveva contestato l’irregolarità con lettera del 27 maggio 2013, sfociata poi nel licenziamento. La Corte di Cassazione ha ovviamente constato la tardività della contestazione a fronte di un’irregolarità nota sin dall’inizio al datore di lavoro.
Ma l’aspetto di notevole interesse della sentenza è il fatto che la Suprema Corte – seguendo le argomentazioni della sentenza della Corte d’Appello di Roma – abbia ricondotto la vicenda alla previsione di mancanza di giusta causa per insussistenza del fatto contestato, con conseguente reintegra della lavoratrice sul posto di lavoro. La sentenza ha quindi “ampliato” il concetto di fatto insussistente che la “legge Fornero” pone come presupposto per la reintegra del lavoratore.
Il percorso logico seguito dai giudici della Cassazione è il seguente.
“Un fatto non tempestivamente contestato ai sensi della legge n. 300 del 1970, art. 7 non può che essere considerato come “insussistente” non possedendo l’idoneità ad essere verificato in giudizio. (…..) Non essendo stato contestato idoneamente ex art. 7 il “fatto” è “tanquam non esset” e quindi “insussistente” ai sensi a dell’art. 18 novellato.
Sul piano letterale la norma parla di insussistenza del “fatto contestato” (quindi contestato regolarmente) e quindi, a maggior ragione, non può che riguardare anche l’ipotesi in cui il fatto sia stato contestato in modo abnorme e cioè in aperta violazione dell’art. 7.”
Peraltro, la stessa Corte di Cassazione con ordinanza n. 10159/2017, constatato il contrasto giurisprudenziale sull’argomento della tardività della contestazione, ha rimesso una successiva causa al giudizio delle sezioni uniti della Cassazione.
La sentenza n. 11027/2017 della Corte di Cassazione in prima battuta enuncia un principio presente nella “legge Fornero” n. 92/2012, principio in base al quale un fatto che il contratto collettivo di riferimento punisce con una sanzione conservativa non è una giusta causa di licenziamento.
Tuttavia, è interessante il ragionamento che la Suprema Corte sviluppa dal citato principio in ordine alla proporzione fra fatto contestato e sanzione, che si ripresenta come un principio giuridico applicabile anche alla disciplina dei licenziamenti introdotta nel 2012.
“Per costante giurisprudenza di questa Corte Suprema, proprio perché quella di giusta causa o giustificato motivo è una nozione legale, le eventuali difformi previsioni della contrattazione collettiva non vincolano il giudice di merito. Egli – anzi – ha il dovere, in primo luogo, di controllare la rispondenza delle pattuizioni collettive al disposto dell’art. 2106 c.c. e rilevare la nullità di quelle che prevedono come giusta causa o giustificato motivo di licenziamento condotte per loro natura assoggettabili, ex art. 2106 c.c., solo ad eventuali sanzioni conservative.
Il giudice non può – invece – fare l’inverso, cioè estendere il catalogo delle giuste cause o dei giustificati motivi soggettivi di licenziamento oltre quanto stabilito dall’autonomia delle parti (cfr., ex aliis, Cass. n. 9223/15; Cass. 17.6.11 n. 13353; Cass. 29.9.95 n. 19053; Cass. 15.2.96 n. 1173), nel senso che condotte pur astrattamente ed eventualmente suscettibili di integrare giusta causa o giustificato motivo soggettivo ai sensi di legge non possono rientrare nel relativo novero se l’autonomia collettiva le ha espressamente escluse, prevedendo per esse sanzioni meramente conservative.”
Una tematica meno comune rispetto a quelle prima trattate, ma che assume comunque rilievo nel contesto delle modifiche legislative del 2012 è quello del licenziamento per scarso rendimento.
Un caso del genere è stato affrontato dalla sentenza n. 23735/2016 della Corte di Cassazione. Il caso riguardava un licenziamento che l’impresa aveva qualificato – surrettiziamente – come licenziamento per giustificato motivo oggettivo, privo di valenza disciplinare in quanto riconducibile alla sopravvenuta inadeguatezza addebitabile al lavoratore, per mancato adeguamento della prestazione alle mutate condizioni di mercato.
Al riguardo, la Cassazione ha premesso come il licenziamento per scarso rendimento sia caratterizzato da colpa del lavoratore ed abbia quindi una natura disciplinare: al datore di lavoro è precluso presentarlo alla stregua di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo, sulla base della seguente elaborazione giuridica.
“Tale orientamento che sottrae alla disponibilità del datore la possibilità di qualificare giuridicamente la ragione (…) del licenziamento, a prescindere dalla sostanza di esso, va ancor più condiviso nel vigore della legge n. 92/2012 che ha novellato la legge n. 300/1970, art. 18, nel senso di attribuire alla tutela reintegratoria (…) del licenziamento per giustificato motivo oggettivo un ruolo ancor più residuale di quello assegnato nel licenziamento disciplinare. Sicché (…) il datore di lavoro con un mero atto di autoqualificazione del recesso (…) potrebbe selezionare ad libitum il rischio di una tutela per lui meno gravosa.”
Pertanto, La Suprema Corte ha cassato con rinvio la sentenza d’appello, esigendo un nuovo esame anche delle tutele spettanti al lavoratore.
Passiamo ora ad alcune sentenze relative a licenziamenti individuati come discriminatori in senso lato, compresi quelli ritorsivi.
La sentenza n. 20534/2015 della Corte di Cassazione ha affrontato il caso di un lavoratore licenziato per giustificato motivo oggettivo, consistente in un presunto andamento negativo dell’attività aziendale. La Suprema Corte ha confermato la sentenza della Corte d’Appello di Venezia, che aveva stabilito come in realtà il licenziamento avesse natura ritorsiva e come tale fosse illegittimo, disponendo la reintegra del lavoratore.
La Cassazione ha ripercorso la duplice argomentazione svolta dalla Corte d’Appello. In primo luogo, la Suprema Corte ha confermato che il giustificato motivo oggettivo deve essere riferito ad una situazione esistente al momento del licenziamento, mentre nel caso in esame si trattava di una crisi risalente nel tempo (al 2008) e come tale non rappresentava un giustificato motivo di licenziamento. In secondo luogo, la Suprema Corte ha confermato la tesi della sentenza d’appello, secondo la quale il motivo del licenziamento era in realtà ritorsivo, da identificare nel fatto che il lavoratore fosse iscritto al sindacato e che il sindacato stesso fosse intervenuto poco prima del licenziamento a tutela del lavoratore al quale erano stati imposti ferie e permessi. Sul punto specifico, la Cassazione ha ritenuto che per accertare la discriminazione e/o la ritorsione sia sufficiente anche un’unica prova di natura presuntiva.
La sentenza n. 2004/2017 della Corte di Cassazione riguarda il caso di una lavoratrice licenziata in periodo di gravidanza per assenza ingiustificata. La Suprema Corte ha cassato la sentenza della Corte d’Appello di Roma: ha considerato insufficiente che il CCNL di riferimento prevedesse tale mancanza come giusta causa di licenziamento ed ha ritenuto che i giudici di merito dovessero accertare una colpa grave a carico della lavoratrice, come previsto dal decreto legislativo n. 151/2001 art. 54 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità). In assenza di tale requisito, il licenziamento è
La sentenza n. 2499/2017 della Corte di Cassazione riguardava il licenziamento di un lavoratore motivato dalla presunta “grave offesa all’immagine aziendale”, derivante dalla pubblicazione su facebook di una vignetta denigratoria del marchio aziendale.
Il Tribunale di Firenze e poi la Corte d’Appello di Firenze avevano dichiarato l’illegittimità del licenziamento. In particolare, la Corte d’Appello aveva constatato come il lavoratore fosse stato originariamente assunto a tempo determinato ed inserito nell’organico aziendale solo a seguito della impugnazione in via giudiziaria della apposizione del termine; tale fatto era stato considerato come sufficiente ad identificare un comportamento ritorsivo dell’impresa.
La Suprema Corte ha accolto la tesi della sentenza d’appello; ha precisato che il licenziamento ritorsivo ricade nella disciplina dell’art. 1345 c.c., sicché il relativo giudizio consta di due accertamenti: il motivo di ritorsione (motivo illecito) e l’assenza di altre ragioni lecite determinanti (esclusività del motivo) ed ha ritenuto che gli accertamenti svolti dai giudici d’appello fossero completi e correttamente motivati.
Con la sentenza n. 1968/2017, la Corte d’Appello di Roma ha affrontato il caso di un lavoratore licenziato con tali modalità: nel gennaio 2015 aveva rifiutato di sottoscrivere una cessione del contratto di lavoro, che avrebbe comportato la decurtazione della retribuzione ed il trasferimento da Roma a Milano; nei mesi successivi era stato sottoposto a vessazioni dai superiori, nel maggio 2015 aveva denunciato tale fatto all’impresa e infine nel giugno 2015 era stato licenziato per giustificato motivo oggettivo.
La Corte d’Appello di Roma ha rilevato come la denuncia delle vessazioni fosse veritiera e che il licenziamento fosse avvenuto dopo il rifiuto della cessione del contratto e dopo la citata denuncia; pertanto, ha dichiarato il licenziamento nullo in quanto ritorsivo e determinato in via esclusiva da motivo illecito, con conseguente reintegra sul posto di lavoro.
Concludiamo con alcune sentenze che hanno affrontato questioni di carattere procedurale
La sentenza n 17166/2016 della Corte di Cassazione ha affermato il principio secondo il quale, se il lavoratore ha presentato per iscritto le proprie giustificazioni alla contestazione ed ha altresì richiesto esplicitamente di essere sentito personalmente, il datore di lavoro deve concedere il colloquio – anche se considera completa ed esaustiva la risposta scritta – pena l’illegittimità del licenziamento. Analogamente, la sentenza n. 25189/2016 della Corte di Cassazione ha dichiarato l’illegittimità di un licenziamento comminato senza aver previamente convocato il lavoratore per il colloquio disciplinare con l’assistenza sindacale. In entrambi i casi, la Suprema Corte ha confermato i licenziamenti per quanto illegittimi, attribuendo al lavoratore la sola tutela monetaria.
Per quanto riguarda invece la tempestività (La sentenza n. 24796/2016 della Corte di Cassazione ha confermato la legittimità di un licenziamento, considerando infondate le eccezioni sulla tardività della contestazione, sulla base di principi giuridici già elaborate prima dell’entrata in vigore della legge n. 92/2012.) , già abbiamo esaminato la sentenza n. 2513/2017 della Corte di Cassazione, che ha ricondotto la tardività della contestazione alla mancanza di giusta causa per insussistenza del fatto contestato, con conseguente reintegra del lavoratore. La successiva sentenza n.10642/2017 della Corte di Cassazione ha invece riconosciuto la sola tutela monetaria; inoltre, ha dichiarato la spettanza anche dell’indennità di preavviso.
Non ci soffermiamo invece su quelle sentenze che hanno affrontato argomenti sui quali la “legge Fornero” del 2012 non ha avuto impatti e che si pongono nel solco di una giurisprudenza consolidata. Si tratta, a titolo di mero esempio, di sentenze che dichiarano la legittimità di licenziamenti comminati per utilizzo a fini privati di internet e facebook dalla postazione di lavoro (Sentenze n. 14862/2017 e n. 10955/2017 della Corte di Cassazione), oppure comminati per assenze irregolari dal posto di lavoro oppure ancora comminati per fatti estranei al rapporto di lavoro ma tali da far venire meno il vincolo fiduciario .