Come cambiamo la contrattazione in un’ottica di genere

By: chiesADIbeinascoCC BY 2.0

Nell’ultima riunione del nostro Coordinamento abbiamo lavorato sui materiali dei seminari confederali, con l’obiettivo di sviluppare una piattaforma rivendicativa di genere da presentare all’Assemblea delle Delegate, al Congresso e in tutte le Sedi aziendali e territoriali in cui siamo presenti e operiamo.

In particolare ci siamo poste questa domanda: Come cambiamo la contrattazione in un’ottica di genere?  E abbiamo provato a dare delle risposte, focalizzandoci in particolare sulle condizioni delle lavoratrici, sulla conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, sulla condivisione delle attività di cura e sulle differenze salariali  di genere nel nostro settore.

Prima di disegnare le prospettive future facciamo qualche passaggio sullo stato attuale della contrattazione di genere nel settore.

Dalla lettura di genere dei contratti collettivi, emerge chiaramente un’attenzione del nostro settore alle questioni di genere, che si esprime in una serie significativa di norme che hanno una sottolineatura specifica (ad esempio su formazione e valutazione professionale, occupazione, carriere,  molestie ecc.). Inoltre ci sono degli articoli dedicati integralmente alle questioni di genere.

Uno spazio considerevole è infatti dedicato nei C.C.N.L. di settore al part-time, come strumento privilegiato per favorire la conciliazione tra attività di cura e attività lavorativa e che ha richiesto una serie di norme di salvaguardia, per evitare che le persone che lo scelgono, in larghissima maggioranza donne, vengano per questo discriminate, ad esempio nell’accesso alla formazione, ai percorsi professionali, ecc.

Inoltre i CCNL di settore hanno favorito la nascita delle Commissioni Aziendali di Pari Opportunità. Su che cosa hanno lavorato le Commissioni Pari Opportunità in questi anni? E con quali risultati?

Non è facile ricostruire le diverse forme in cui la contrattazione di genere si è articolata nelle differenti realtà aziendali e territoriali. E questo conferma una volta di più l’importanza di tessere una fitta e resistente rete di rapporti tra le donne, che veicoli le buone pratiche messe in campo, spesso sconosciute ai Coordinamenti Donne dispersi nel territorio e nelle diverse strutture sindacali aziendali oltre che sovente ignorate dall’organizzazione nel suo complesso.

Conquiste rilevanti sono state conseguite sulla conciliazione tra attività lavorative e attività di cura, e più in generale tra tempi di lavoro e tempi di vita, attraverso una contrattazione anche di secondo livello, che ha favorito l’introduzione dell’orario elastico, l’utilizzo di permessi (retribuiti e non) per una casistica varia e articolata e l’introduzione della banca delle ore.

Tuttavia manca una prospettiva di genere che pervada l’intera architettura contrattuale o che riesca perlomeno ad incidere sugli istituti contrattuali più importanti, come inquadramenti e salario, che  risultano ancora fortemente discriminatori nei confronti delle donne, come evidenziano i rapporti i biennali.

E’ ancora evidente il tetto di cristallo, che blocca la carriera delle donne ai primi livelli dei Quadri Direttivi, proseguendo sulla scala gerarchica le donne diradano sempre più e la loro presenza diviene rarefatta nei livelli dirigenziali.  Inoltre anche a parità di livello, le donne hanno retribuzioni inferiori.

Questo fatto secondo le aziende si spiega con la preminenza di donne nel lavoro a tempo parziale, invece  noi sappiamo che questa differenza deriva soprattutto dal salario variabile.

Gli ad personam, che venivano utilizzati al posto della promozione a favore dei lavoratori che la pretendevano (le donne solitamente non chiedono riconoscimenti economici per il proprio lavoro), oggi sono caduti in disuso, ma sono stati sostituiti dai premi di produttività, come elementi di possibile discriminazione economica. Questo perché la presenza è uno dei criteri di merito prioritari, cioè vale di più la quantità di ore lavorate (lo straordinario) che la qualità dei risultati conseguiti.

Dobbiamo allora chiederci se ci sono dei “criteri di genere” per riconoscere la produttività. Se la presenza è un criterio che avvantaggia il genere maschile, quali possono essere invece i criteri che premiano il genere femminile? Dobbiamo individuarli, proporli alle aziende come criteri distintivi e sostenerli.

La Formazione può essere un altro ambito di perpetuazione d’atteggiamenti discriminatori rivolti alle donne oppure il luogo della loro emancipazione.

A questo proposito riconosciamo il lavoro fin qui svolto da F.B.A., il  Fondo per la Formazione Continua di settore, che ha emesso dei bandi specifici sulle pari opportunità e per incentivare percorsi di formazione  dedicati alle donne, che impattino anche sui percorsi di carriera.

Tuttavia non siamo ancora riusciti ad intervenire con efficacia sulla mancata correlazione tra competenze, inquadramento e salario, che penalizza in maniera significativa le donne, sotto inquadrate e sotto utilizzate rispetto al loro profilo professionale. Per invertire la direzione, sarebbe ora di cogliere l’invito della  Confederazione Europea dei Sindacati: dare più valore al lavoro delle donne, sovrastimandolo.

La progettazione di un percorso formativo, per essere davvero efficace, dovrebbe quindi scaturire da un’analisi critica dell’organizzazione del lavoro. Dovrebbe inoltre prendere spunto dall’analisi del fabbisogno formativo, realizzato sondando le esigenze dei lavoratori. Un processo formativo davvero inclusivo per le donne dovrebbe partire dalle lavoratrici e tornare a loro, sotto forma di certificazione delle competenze. Questa sarà una delle sfide da giocare nei prossimi tempi per garantire alle donne una maggiore occupabilità.

Lo sguardo che abbiamo fin qui tracciato sul nostro settore, evidenziandone progressi e limiti da un punto di vista di genere, ci porta a percorrere due linee rivendicative:

  1. Occorre difendere e consolidare le iniziative di conciliazione, in un momento in cui le flessibilità orarie vengono oggi messe a dura prova dall’applicazione dell’orario esteso in alcune filiali bancarie e dai tentativi di ANIA di cancellare la riduzione d’orario del venerdì pomeriggio, sviluppando le misure atte a favorire il coinvolgimento dei padri nelle attività di cura dei figli. Abbiamo quindi pensato a tre interventi negoziali di questa natura, derivanti dal recepimento di Direttive Europee:
  • La Riforma del Mercato del Lavoro ha introdotto il congedo di paternità di 3 giorni (uno obbligatorio e due facoltativi) in occasione della nascita del figlio. L’applicazione della norma è direttamente esigibile dal lavoratore. Tuttavia la contrattazione di settore (nazionale o integrativa) può ulteriormente ampliare questi giorni di congedo, favorendo così la condivisione delle attività di cura tra i genitori e le pari opportunità.
  • La Legge di Stabilità prevede la frazionabilità dei congedi parentali e in questo caso rinvia proprio alla contrattazione collettiva le modalità operative di fruizione ad ore. Occorre garantire quanto prima e in modo concreto questa possibilità, atta a favorire l’utilizzo dei congedi da parte del padre.
  • Un’altra efficace forma di incentivo alla condivisione delle attività di cura tra i genitori potrebbe scaturire dall’incremento dell’indennità del congedo parentale (il 30% della retribuzione pagata dall’INPS potrebbe essere integrato fino al 60/80% dalle aziende).

         2. L’altra linea rivendicativa, su cui dobbiamo muoverci con più determinazione rispetto al passato,  è la riduzione concreta delle differenze salariali. Suggeriamo anche qui alcune misure:

 

  • Nel caso di assenza dal servizio, il premio aziendale viene ridotto di tanti dodicesimi quanti sono i mesi totali di assenza. Tuttavia sono salvaguardati dalla riduzione i 5 mesi del congedo di maternità (parte obbligatoria), che non vengono computati a riduzione del premio. E’ necessario tuttavia salvaguardare anche l’astensione facoltativa, così come definita dal T.U. sui congedi parentali, a beneficio della madre e del padre, come concreto riconoscimento della funzione sociale svolta dalla famiglia.
  • Un altro intervento auspicabile riguarda gli incentivi nel settore del credito. Il CCNL stabilisce l’obbligo dell’impresa di segnalare il numero dei premiati distribuiti per classi omogenee. Chiediamo che siano distinte per genere (così come avviene per l’informativa sugli avanzamenti di carriera). Oltre a garantirci l’informativa, aggiungiamo almeno una raccomandazione a perseguire una coerenza tra le percentuali di presenza di genere e le percentuali di premiati e promossi.
  • Cogliendo infine l’esortazione della CES a sovrastimare il lavoro delle donne (o di chi svolge attività di cura con valore sociale), la nostra proposta è di retribuire di più il tempo parziale, con una paga oraria maggiore rispetto al tempo pieno e non più in modo proporzionale rispetto alle ore lavorate, oltre a sanzionare il rifiuto della sua concessione.

Nell’attesa dei futuri rinnovi dei Contratti Collettivi Nazionali, invitiamo a diffondere queste iniziative in tutte le sedi, aziendali e territoriali, in cui ognuna di noi svolge il proprio impegno sindacale, in modo da sensibilizzare tutta l’organizzazione ed aprire degli spazi d’azione nella contrattazione di 2° livello. 

Condizione necessaria per operare una contrattazione di genere di portata davvero innovativa è cancellarne quella dimensione di parzialità che l’ha caratterizzata finora, quel tratto caratteristico di contrattazione residuale e di nicchia. Premessa imprescindibile per questo cambiamento è la composizione equilibrata al 50 e 50 delle delegazioni trattanti del settore.

Milano 12 febbraio 2013

COORDINAMENTO DONNE FISAC/CGIL MILANO E LOMBARDIA

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