Con due distinte decisioni del 31 gennaio 2017, complaints n. 106/2014 e 107/2014 entrambi verso la Finlandia, il Comitato europeo dei diritti sociali (Ecsr), nell’interpretare l’articolo 24 della Carta sociale europea, ha stabilito importanti punti fermi in materia di licenziamento del lavoratore e di sanzioni per il licenziamento illegittimo.
Entrambi i casi erano stati sollevati da ricorso collettivo della Finnish Society of Social Rights, che aveva lamentato la violazione dell’art. 24 della Carta in relazione alle disposizioni nazionali finlandesi che prevedevano, da un lato, le condizioni per intimare un licenziamento per giustificato motivo oggettivo e, dall’altro lato, la responsabilità datoriale in caso di recesso illegittimo.
La norma richiamata è contenuta nella Carta sociale europea, trattato del Consiglio d’Europa che garantisce i diritti umani sociali ed economici: adottato nel 1961, accresciuto nel 1988 con un protocollo aggiuntivo (che prevedeva la «protection against dismissals») e riveduto nel 1996, il trattato è stato firmato dall’Italia nel 1996, ratificato nel 1999 (con la legge 9 febbraio 1999, n. 30), e con accettazione del ricorso collettivo nel 1997.
L’art. 24 della Carta sociale europea prevede il diritto ad una tutela in caso di licenziamento ed enuncia tre principi: causalità del licenziamento, congruità dell’indennizzo spettante al lavoratore illegittimamente licenziato, impugnabilità del provvedimento davanti ad un organo imparziale.
Più specificamente, sotto il primo profilo, l’art. 24 ribadisce il principio per cui qualsiasi licenziamento deve fondarsi su una valida ragione («valid reason») legata o all’incapacità e al comportamento del lavoratore, o ad esigenze organizzative dell’azienda («operational requirements»); detta ragione deve essere specificata in una fonte vincolante per l’ordinamento interno e deve essere sempre comunicata al lavoratore in modo che questi possa valutarne la fondatezza ed eventualmente contestarla davanti a un’autorità terza e imparziale; l’assenza di una valida ragione deve dare al lavoratore diritto a un adeguato indennizzo o ad altra «tutela appropriata».
In materia di licenziamenti, rileva in primo luogo il principio di proporzionalità, per il quale la limitazione di un diritto è giustificata solo se necessaria a tutelarne un altro di pari valore e solo se non esistono altre vie per perseguire tale finalità: un principio che, se applicato al licenziamento, implica il rigoroso bilanciamento tra esigenze della produzione e diritto al lavoro, fondato sul criterio dell’extrema ratio del recesso (che a sua volta si traduce nell’obbligo di repechage).
Per quanto riguarda poi il principio di effettività (effectiveness), questo, sulla base della giurisprudenza del Comitato, implica che la sanzione per la violazione di un diritto abbia il carattere della «adeguatezza, effettività e dissuasività» ovvero sia tale da costituire un reale deterrente per il datore di lavoro.
Le due pronunce del Comitato intervengono sui detti due aspetti, precisando le condizioni del licenziamento c.d. «economico» e dettando i criteri per il giudizio di congruità della tutela accordata al lavoratore.
Nella prima pronuncia, la ricorrente adduceva violazione dell’art. 24 della Carta sociale europea in quanto il licenziamento è consentito nella legislazione finlandese per ragioni finanziarie e produttive, anche in mancanza di necessità economica del datore di lavoro.
Nella decisione della causa, il Comitato ha ricordato come le ragioni economiche per il licenziamento devono basarsi sulle necessità di funzionamento dell’impresa, dello stabilimento o del servizio e che tale valutazione è rimessa al giudice nazionale, che deve avere il potere di sindacare la legittimità del recesso non solo per aspetti di diritto, ma anche sulla base di valutazioni di fatto (Conclusioni del 2012, Turchia). Quanto alle «esigenze operative» cui l’art. 24 subordina la legittimità dei recessi, secondo il Comitato queste possono riguardare misure industriali o strategiche ritenute necessarie per l’impresa per mantenere o migliorare la competitività in un mercato globalizzato, anche quando l’impresa non è di per sé in difficoltà economica.
In altri termini, la crisi d’impresa non è un presupposto necessario dei licenziamenti economici, potendo questi ricollegarsi anche solo a ragioni diverse di tipo economico e produttivo. In quest’ambito, tuttavia, è significativo che il Comitato precisi che l’art. 24 della Carta richiede un punto di equilibrio tra il diritto dei datori di lavoro per gestire la loro impresa come meglio credono e la necessità di proteggere i diritti dei lavoratori e che ai motivi economici o legati alla produzione devono aggiungersi altri requisiti, quali una ragione adeguata e rilevante («a proper and weighty reason») nonché la diminuzione del lavoro in modo sostanziale e permanente.
Vengono sottolineati nella decisione, quindi, i fattori che devono essere presi in considerazione nel valutare la legale possibilità del recesso, quali il calo della domanda, l’obsolescenza dei prodotti, l’aumento della concorrenza o la ristrutturazione del business.
Il Comitato aggiunge poi che il ricorso all’outsourcing del lavoro o all’utilizzo di lavoratori temporanei a seguito licenziamenti per motivi economici potrebbe essere una pratica in contrasto con l’art. 24 della Carta, salvo che ricorrano alcune garanzie in ordine alla possibilità di sindacare l’effettività della ragione economica del recesso e in relazione all’obbligo – in caso di assunzioni – di reimpiego dei licenziati nelle stesse mansioni entro nove mesi dalla cessazione del rapporto di lavoro.
Le precisazioni fin qui riportate sono assai rilevanti, anche se poi il Comitato ha ritenuto che nel caso le condizioni suddette sono state rispettate dalla legislazione finlandese, in difetto di elementi diversi che il ricorrente (l’onere di allegazione è ritenuto infatti a suo carico) non aveva fornito nella specie: da ciò l’esclusione della violazione.
Del tutto opposto l’esito dell’altro giudizio, ove il Comitato ha riscontrato una violazione della Carta in relazione alla tutela accordata ai lavoratori illegittimamente licenziati, in ragione della mancata previsione della reintegra e della limitazione legale della misura dell’indennità risarcitoria.
In questa pronuncia, il Comitato europeo dei diritti sociali – che già aveva in via generale affermato in passato che l’indennizzo per il recesso illegittimo deve essere «of a high enough level to dissuade the employer and make good the damage suffered by the employee» – ha specificato oggi che, ai sensi della Carta, ai dipendenti licenziati senza giustificato motivo deve essere concesso un adeguato indennizzo o altro adeguato rimedio. È ritenuta adeguata compensazione quella che include:
- il rimborso delle perdite economiche subite tra la data di licenziamento e la decisione del ricorso;
- la possibilità di reintegrazione;
- la compensazione ad un livello sufficientemente elevato per dissuadere il datore di lavoro e risarcire il danno subito dal dipendente («compensation at a level high enough to dissuade the employer and make good the damage suffered by the employee»).
Ne deriva che in linea di principio qualsiasi limite risarcitorio che precluda una «compensation» commisurata alla perdita subita e sufficientemente dissuasiva è in contrasto con la Carta, salvo che il limite riguardi il solo danno patrimoniale e la vittima possa ottenere attraverso altri rimedi il ristoro del danno non patrimoniale, ad esempio, la legislazione anti-discriminazione (Conclusioni del 2012, Slovenia).
Nella specie, la legislazione finlandese prevedeva il limite di 24 mesi di retribuzione quale limite massimo al risarcimento del danno da licenziamento illegittimo. In passato (Conclusioni del 2012, Finlandia), il Comitato aveva ritenuto legittima la disciplina sul presupposto che il lavoratore avesse la possibilità di ricorrere ai rimedi risarcitori civili – ordinari o speciali (ad esempio, ai sensi della disciplina antidiscriminatoria o della legge sulla parità tra donne e uomini) – in via aggiuntiva rispetto all’indennità di legge.
Nella decisione in commento, il Comitato segue un indirizzo più rigoroso, affermando che i rimedi della disciplina antidiscriminatoria sono fruibili solo per i licenziati oggetto di discriminazione e che i rimedi risarcitori ordinari sono in generale inapplicabili proprio in ragione della specialità della disciplina dei licenziamenti illegittimi.
In tale contesto, il limite massimo dell’indennizzo previsto dalla legge può portare a situazioni in cui risarcimento attribuito non è commisurato alla perdita subita: ne deriva che il «plafonnement» dell’indennità integra una violazione dell’art. 24 della Carta.
Con riferimento alla mancata previsione della reintegra del lavoratore illegittimamente licenziato, il Comitato rileva che la reintegra è uno dei rimedi possibili previsto dalla Carta (Conclusioni del 2003, Bulgaria) e che è rimedio che il Comitato ha in passato ritenuto necessario anche in relazione ad altre norme della Carta, quali l’art. 8 § 2 e 27 § 3 (rispettivamente relativo alla tutela della maternità e della responsabilità famigliari): se ne deduce che il rimedio è imposto dall’art. 24 nel caso in cui non vi sia adeguata «compensation» né altro adeguato «relief».
In tale contesto, è giudicata insufficiente dal Comitato la previsione dell’obbligo datoriale di reimpiego del lavoratore licenziato in caso di riassunzione nei nove mesi seguenti al recesso, trattandosi di tutela destinata ad operare solo in caso di nuove assunzioni, laddove la reintegrazione è rimedio che spetta in ogni caso e senza limiti temporali.
Anche in relazione a tale aspetto, quindi, viene ravvisata la violazione dell’art. 24 della Carta, in ragione della mancata previsione della reintegra nella legislazione nazionale in questione in difetto altresì di adeguata «compensation».
Le decisioni appaiono particolarmente significative anche per il nostro ordinamento.
La prima, se si considera che la giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 25201/2016) ha di recente ammesso la legittimità dei licenziamenti per giustificato motivo oggettivo per le mere scelte organizzative del datore di lavoro – senza profili di economicità –, ma non ha in alcun modo individuato le «ragioni organizzative del licenziamento» (in tal modo elevando «la soppressione del posto» a rango di primo presupposto del giustificato motivo oggettivo, senza preoccuparsi di verificare le ragioni del riassetto organizzativo che sono alla base della soppressione del posto e che pur sempre ne condizionano la legittimità secondo la lettera dell’articolo 3 della legge n. 604/1966: così, tra gli altri, in dottrina, G. Santoro-Passarelli, nonché C. Ponterio).
La seconda, atteso che la nostra legislazione – post Fornero e Jobs Act (dapprima con l’art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, come modificato dall’art. 1, comma 42, della legge 28 giugno 2012, n. 92; poi anche con l’articolo 3 del D.Lgs. 4 marzo 2015 n. 23, di attuazione della legge delega 10 dicembre 2014 n. 183) – ha ormai limitato la reintegrazione ad ipotesi residuali di licenziamento illegittimo, mentre l’indennità prevista per le altre ipotesi è sempre notevolmente limitata nel suo ammontare massimo (comunque non superiore a ventiquattro mensilità retributive, ma spesso molte mensilità di meno).