“Ho iniziato ad andare a casa di alcuni ragazzi molto ubriachi e a rubare tutta la loro roba. Tutto ciò che avevano. Non è colpa mia… erano molto ubriachi. Dovevano farci attenzione. Di solito riesco a farlo il 90% delle volte ma quando un uomo coraggioso mi trascina in tribunale, mi difendo dicendo che non ero sicura di cosa intendesse dire quando ha affermato: ‘Non rubare la mia Audi’. Semplicemente non avevo capito bene il significato. Gli ho detto: ‘Posso rubare il tuo orologio di Gucci per favore?’. Lui mi ha detto: ‘No’, ma io non ero sicura di cosa intendesse. Era ubriaco. Si è cacciato lui in questa situazione. Potete vedere da soli come era vestito in discoteca, quelle magliette costose e quelle scarpe. Che messaggio stava lanciando?! Pensavo che volesse che io andassi da lui e lo derubassi di tutta la sua roba. Era ciò che stava chiedendo. Quando ha detto ‘no’ alla mia richiesta di portargli via tutte le sue cose non capivo cosa intendesse dire. ‘No’ non è qualcosa di abbastanza oggettivo, può significare qualsiasi cosa”. (Alice Brine)
LA VIOLENZA DI GENERE E IL VALORE DI UN “NO”
Alice Brine, attrice comica neo zelandese, un pò di tempo fa ha postato su facebook questo commento, che è diventato immediatamente virale. La sua intenzione era di mettere a nudo le bugie e le false giustificazioni che gli uomini e la società utilizzano per sminuire la violenza sulle donne, nonché di sottolineare che la parola NO non ha, e non può avere, un’interpretazione soggettiva: NO significa NO!
A luglio di quest’anno, ilParlamento tedescoha approvato, a larga maggioranza, una nuova leggeche considera l’espressione del dissenso, il cosiddetto “no”, sufficiente per qualificare uno stupro come tale, anche se la vittima non reagisce fisicamente. La Germania è stata a lungo criticata per l’eccessivo ritardo rispetto allo standard europeo sulla tutela alle vittime di stupro (lo “stupro coniugale” è diventato reato solo nel 1997) ma le aggressioni sessuali della notte di Capodanno a Colonia hanno profondamente sconvolto i tedeschi e l’indignazione collettiva ha dato avvio a una campagna, veicolata dall’hashtag #NeinHeisstNein (no significa no), che ha dato un forte impulso all’approvazione della nuova legge anti-stupro.
Ciò che separa l’amore, o anche semplicemente il sesso, dalla violenza e dallo stupro è il consenso.
Perché il NO delle donne non è ascoltato? Perché scatena così spesso la violenza maschile? Cosa rende insopportabile il suono di questo minuscolo avverbio alle orecchie degli uomini? E’ il potere. La stereotipata, supposta, obbligata, supremazia maschile, tramandata di generazione in generazione. Il desiderio ossessivo e possessivo di dominio e di controllo sulla donna, che viene messo in crisi ogni volta che una donna decide di non iniziare, o di chiudere, una relazione. Noi donne veniamo brutalmente assassinate quando decidiamo di dire no. Il femmicidio non è solo l’uccisione della donna, ma l’ultimo atto di un’ escalation di violenze fisiche e psicologiche che è reso possibile, almeno nella maggior parte dei casi, da una serie di arcaici meccanismi sociali e culturali, per lo più inconsapevoli e quindi accettati inconsciamente in maniera acritica. Definirlo semplicemente omicidio passionale, amore criminale, gesto folle, raptus incontrollato è fuorviante, perché non consente di comprendere cosa accade realmente, non svela l’arcano scenario di una cultura millenaria di possesso dell’uomo sulla donna e di sottomissione femminile.
La costante mistificazione e banalizzazione della violenza finisce poi con l’indurci a colpevolizzare chi la subisce, chi ha osato dire no, così la violenza rappresenta la punizione per ogni donna che non accetta di ricoprire il ruolo imposto, l’espressione del controllo che l’uomo e la società esercitano sulla donna affinché il suo comportamento risponda alle aspettative.
In Italia, la cultura tramanda questa concezione per cui la violenza maschile sulle donne è un qualcosa di naturale. Fino alla fine degli anni 60, infatti, il marito poteva picchiare legalmente la moglie, l’adulterio femminile era considerato, sia dalla legge che dalla società, assai più grave di quello maschile e l’art. 587 del c.p. prevedeva la riduzione di un terzo della pena per chiunque uccidesse la moglie, la figlia o la sorella per difendere l’onore, suo o della famiglia. Fino al 1971, era vietato vendere e pubblicizzare i contraccettivi. Fino al 1978 l’aborto era illegale. Solo nel 1981 si è abrogato il c.d. “matrimonio riparatore”, che consentiva di estinguere il reato di stupro sposando la ragazza violentata. In caso di stupro di gruppo, il matrimonio di uno degli stupratori estingueva il reato di tutti gli altri! E ancora, fino al 1996, lo stupro rientrava tra i delitti contro la “moralità pubblica e il buon costume” anziché contro la persona.
Da allora sono stati compiuti molti passi avanti e molte leggi sono cambiate, ma i presupposti culturali che legittimavano la violenza sono rimasti sostanzialmente gli stessi poiché, a discapito del principio di uguaglianza costituzionalmente sancito, le donne incontrano ancora troppi ostacoli al raggiungimento di una sostanziale parità, ostacoli che sono direttamente correlati alla visione stereotipata delle donne che le vuole sottomesse e dipendenti.
La resistenza sociale al cambiamento è uno dei fattori che alimentano la violenza degli uomini sulle donne, una violenza che rimane sorda davanti al desiderio di indipendenza e libertà della donne, sorda davanti a quel No che, urlato o sussurrato, esige rispetto. E’ questo rispetto che dobbiamo conquistare, quella resistenza che dobbiamo abbattere, perchè in quel NO c’è il nostro diritto alla vita, la nostra dignità di esseri umani liberi, il nostro diritto a una società che voglia e sappia individuare le responsabilità individuali e collettive, punire i colpevoli, costruire le basi per tutelare pienamente i diritti umani a partire da quello fondamentale alla vita, senza concedere nessuna attenuante alla cultura della violenza.