Il Coordinamento Donne della Fisac Cgil Nazionale aderisce alla mobilitazione del 26 e 27 novembre contro la violenza maschile sulle donne, promossa da Rete IoDecido, D.i.Re.(Donne in rete contro la violenza) e UDI (Unione Donne in Italia). Crediamo che oggi il contrasto alla violenza di genere debba essere la nostra priorità, come pure la costruzione di una rete delle donne, che permetta di superare quelle differenze di pensiero e di azione, che pure ci sono tra noi, ma che dobbiamo saper leggere come ricchezza del movimento, senza mai trasformarle in muri o steccati.
Per queste ragioni, la nostra iniziativa per la Giornata Internazionale Contro La Violenza Sulle Donne non può essere diversa dalla partecipazione a questo movimento, che sta nascendo e crescendo in tutto il mondo, dai paesi del Nord Europa all’America Latina, con una vitalità ed una determinazione tutte nuove. La nostra non vuole essere un’adesione formale ma una consapevole scelta politica e organizzativa. Per garantire una reale partecipazione abbiamo deciso di convocare il Coordinamento Donne della Fisac Cgil per il 26 novembre a Roma, con ritrovo alle ore 14 in Piazza della Repubblica.
Il movimento Non Una Di Meno nasce per dire basta, per gridare a gran voce, tutte insieme, che non siamo più disposte ad accettare la morte di un’altra donna per mano di un uomo, per urlare che chi colpisce una donna colpisce tutte noi e che ci vogliamo tutte vive, nel corpo e nella mente, vive e libere. Libere di scegliere chi essere, come vestire, chi e come amare, senza dover rischiare la vita per difendere le nostre scelte.
La violenza, purtroppo, avviluppa la condizione esistenziale delle donne da sempre, sino a sfociare in molti casi nel femminicidio, neologismo che, sottolineando la matrice di genere di questa tipologia di reati, ne ha favorito la presa di coscienza da parte dell’opinione pubblica e lo specifico riconoscimento legislativo. Per capire cosa accade, i numeri non bastano. Servono le storie, che ci raccontano di donne uccise perché ribelli, di donne che rivendicavano la propria libertà di scegliere, di interrompere una relazione che vivevano con sofferenza o di esprimere liberamente la propria sessualità.
Il numero di femminicidi è tuttavia soltanto il sintomo più tragico e allarmante di un sistema culturale, politico e sociale che fa violenza alle donne considerandole come soggetti di minor valore e di minor diritto, se non addirittura come oggetti, discriminandole nell’accesso al lavoro e sfruttandone il lavoro di cura come surrogato gratuito di un welfare in disfacimento. Anche dove e quando le donne accedono al lavoro retribuito, sono segregate dal punto di vista degli inquadramenti (soffitto di cristallo) e del salario (più basso anche a parità di mansione e livello di inquadramento). Perciò in alcuni Paesi come l’Irlanda la protesta delle donne diventa sciopero, cioè astensione da tutte le attività lavorative (sia quelle retribuite che di cura) per quel lasso di tempo che corrisponde allo scarto salariale medio tra le lavoratrici e i lavoratori.
L’Italia, ultima in Europa per tasso di occupazione femminile (ISTAT) e al 69esimo posto nella classifica mondiale per la parità di genere (Global Gender Gap), dovrebbe favorire l’accesso al lavoro di 2,7 milioni di donne per riuscire ad allinearsi alla media europea. Un obiettivo che avrebbe ricadute positive per tutta la società, come la crescita del Prodotto Interno Lordo del 7%, ma che per realizzarsi avrebbe bisogno di un welfare, cioè di un sistema di servizi integrato, che liberi le donne dalle attività di cura.
Il nostro lavoro, il nostro tempo e le nostre vite valgono meno di quelli dell’uomo. Sono queste le radici della violenza del potere maschile sulle donne, che è anche controllo dei nostri corpi e della nostra funzione riproduttiva, come dimostrano gli ostacoli alla piena applicazione della Legge sull’Interruzione Volontaria della Gravidanza e la recente campagna sulla fertilità a comando statale.
La differenza di genere è un valore aggiunto, oggi ancora del tutto misconosciuto nei fatti, che dovrebbe permeare i programmi educativi e didattici fin dalla scuola primaria. Noi donne siamo abituate a vivere come se fossimo una minoranza e a sentirci diverse, a sentirci addosso lo sguardo giudicante dell’altro. Per questo motivo il riconoscimento e la valorizzazione delle differenze, in primis quella di genere, ma non solo, rendono la nostra denuncia e la nostra rivendicazione universali. In esse possono riconoscersi tutte e tutti coloro che si sentono diversi, che rifiutano di aderire al modello stereotipato dominante e desiderano esprimere in libertà la loro unicità di persone, a qualunque genere appartengano e quale che sia il loro orientamento sessuale.
Allo stesso modo ci sentiamo vicine alle donne e agli uomini che, fuggendo da fame o persecuzioni, solcano i nostri mari ed approdano sulle nostre coste, con il loro portato di diversità etnica e culturale, oltre che sociale e umana. In questi viaggi della speranza le donne migranti subiscono i maggiori disagi, occupano i posti più pericolosi, come quelli in fondo alla stiva, e con maggiore frequenza perdono la vita. Noi crediamo che accoglienza e integrazione siano da coniugare come femminile plurale, cioè nella dimensione femminile e collettiva, che questa mobilitazione vuole riaffermare.
Concludiamo con una speranza, che è quasi una certezza, che alla nostra mobilitazione aderiranno anche molti uomini, stanchi del modello stereotipato di una mascolinità apparentemente forte ma in realtà sempre più fragile, che usa il proprio potere in modo distorto e distruttivo, incapace di cogliere la forza e le potenzialità del cambiamento di cui oggi le donne sono portatrici.
10 novembre 2016