Mosul, capitale del Califfato in Iraq: nella piazza della città 19 ragazze yazide , chiuse dentro delle gabbie di ferro, sono state bruciate vive per essersi rifiutate di concedersi come schiave sessuali ai combattenti dell’Isis. L’esecuzione, secondo l’agenzia curda Ara (Kurdish News Agency), è avvenuta davanti a centinaia di persone e “nessuno ha potuto fare niente per salvarle”. Le giovani donne erano state rapite nel Mount Sinjar, una zona a maggioranza yazida vicino al confine con la Siria. Nell’agosto del 2014 l’area fu occupata dall’Isis e sottoposta a una spietata pulizia etnica e ben oltre 3500 yazide furono catturate. Il 3 agosto dello stesso anno lo Stato Islamico annunciò di avere ripristinato l’istituzione della schiavitù.
Quei corpi che bruciano sono l’ennesimo orrore di quella guerra, l’ennesimo orrore di tutte le guerre perchè la violenza contro le donne, lo stupro sono da sempre il filo conduttore che unisce tutti i conflitti: arma di terrore e di vendetta che prescinde e travalica nazionalità, confini geografici e motivazioni che inducono alla guerra. Durante le guerre gli stupri vengono sistematicamente commessi con lo scopo di terrorizzare la popolazione e disgregare famiglie e comunità, annientare e prostare il nemico o l’etnia considerata nemica, un mezzo per contagiare le donne con il virus dell’HIV o renderle sterili.
Lo stupro durante i conflitti militari si è trasformato nel tempo da effetto collaterale del conflitto a strumento di guerra e meccanismo di controllo sociale fondato sul concetto maschile di possesso della donna. Ogni stupro in questo senso è interpretabile come un esercizio di potere, il potere di un gruppo di uomini autorizzati dalla vittoria ad esercitare in via straordinaria questo dominio. La violenza sulle donne, la mercificazione dei corpi e lo stupro sono stati usati come simbolo dell’umiliazione del popolo vinto e come mezzo di propaganda nella 1° guerra mondiale, per affermare la superiorità della razza nella 2° guerra mondiale, come strumento di pulizia etnica nella guerra in Bosnia-Erzegovina, sovente arma di vendetta e lucida strategia militare.
Per secoli, la violenza sessuale durante le situazioni di conflitto è stata tacitamente accettata in quanto considerata inevitabile. Durante la Seconda Guerra Mondiale, tutte le parti coinvolte nel conflitto furono accusate di aver commesso stupri di massa, tuttavia nessuno dei due tribunali istituiti a Tokyo e a Norimberga riconobbe il reato di violenza sessuale.
Fu solo nel 1992, in seguito agli stupri subiti dalle donne nella ex Yugoslavia, che il tema giunse all’attenzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite così che il 18 dicembre 1992, il Consiglio dichiarò la “prigionia di massa, organizzata e sistematica e lo stupro di donne, in particolare di donne musulmane, in Bosnia e in Erzegovina” un crimine internazionale che deve essere affrontato.
Nel marzo di quest’anno, per la prima volta, la corte dell’Aja ha riconosciuto lo stupro come arma di guerra nel processo a Jean-Pierre Bemba, ex vicepresidente della Repubblica Democratica del Congo, per le violenze commesse dalle sue milizie nel 2002 e nel 2003. Per la prima volta la Corte Penale Internazionale condanna un imputato per il ruolo svolto in qualità di comandante militare di un esercito.
Queste sentenze rappresentano certo dei passi in avanti verso una maggiore consapevolezza del legame tra guerra, violenza sulle donne e volontà di dominio, ma non basta! E’ ancora troppo poco, ancora troppo è silenzio che avvolge e sfoca i contorni di questo rapporto.
Contro la mercificazione delle donne rapite, violentate e vendute si schierano le donne combattenti curde che lottano contro l’Isis e mostrano che non intendono delegare a nessuno la loro difesa. Le combattenti curde, proponendo un modello di autogoverno fondato sulla parità di etnia e di genere, dimostrano la possibile alternativa al fondamentalismo islamico, sottolineando l’ importanza dell’educazione per superare il patriarcato e creare le donne e gli uomini del mondo di domani.
E’ indispensabile rompere questo muro di silenzio, nel nostro Paese come a livello internazionale, per far conoscere le atrocità che rendono il corpo delle donne un campo di battaglia. Per non rivedere mai più i corpi delle donne straziati dalle fiamme ed esposti nelle piazze come ai tempi della caccia alle streghe della Santa Inquisizione, abbiamo un’arma imbattibile: la conoscenza.
Giugno 2016
Esecutivo Nazionale Donne Fisac Cgil