È iniziata ieri 25 novembre l’Assemblea Nazionale Donne della Fisac Cgil. Pubblichiamo la relazione di Maria Assunta Mazzotti.
Care compagne, ci rivediamo oggi, a distanza di quattro anni dalla nostra ultima Assemblea di donne, dirigenti di questa organizzazione, che si tenne sempre qui a Cervia.
Era sempre autunno e in quei giorni ci raccontammo e riflettemmo sul messaggio che, partito dalle piazze del Mediterraneo, cercava di arrivare fin dentro i palazzi, un vento di libertà, di democrazia. La primavera era stata attraversata da un sussulto di dignità politica, qualcosa di grande, di emozionante che aveva travalicato le frontiere delle divisioni ideologiche, anche quelle delle varie anime dei movimenti femminili, attraverso una nuova consapevolezza, la volontà di vincere la frammentazione che sempre ci ha penalizzato tutte, ma soprattutto di combattere insieme contro un’ideologia retriva che ci voleva e ci vorrebbe ancora subordinate al potere del maschio e al controllo patriarcale, per riportarci a quelle condizioni di inferiorità contro cui tante di noi hanno combattuto .
Penso al listino del mercato delle schiave sessuali dell’Isis in cui donne e bambine sono prezzate come il bestiame: 40 dollari per le donne tra i 40 e i 50 anni, 69 dollari per le trenta-quarantenni, 86 per le venti- trentenni fino a 172 per le bimbe da 1 a 9 anni. Quelle sopra i cinquanta non compaiono neppure in lista, considerate prive di valore.
Quello che è successo in questi ultimi mesi, le stragi a Egitto, Tunisi, Beirut, Parigi ci ha riportato in un clima di inquietudine e di ansia, ha minato le nostre certezze, ha messo in discussione la tranquillità dentro le nostre case, ha fatto squillare i nostri cellulari e le nostre chat. Ci ha obbligato a confrontarci con la violenza come mezzo di risoluzione di conflitti mai veramente affrontati e risolti da una politica incapace se non complice degli stessi terroristi.
E’ una lunga marcia quella che le donne hanno intrapreso negli ultimi due secoli, che si è realizzata dentro il sindacato, nelle istituzioni, nei partiti, nella società, nella famiglia, durante la quale abbiano cambiato il linguaggio, il senso comune, l’economia, la fisionomia dei luoghi di lavoro.Abbiamo combattuto contro le discriminazioni e le violenze, le diffidenze e i pregiudizi, che ancora resistono in molte parti del mondo.
Una marcia in salita, quasi una scalata, un’arrampicata che trova nel suo percorso molti ostacoli, interruzioni , che le donne superano spesso in solitudine ma che invece andrebbe affrontata in gruppo, con la solidarietà delle altre donne. Ce lo insegna la storia delle donne e delle conquiste ottenute a partire dal dopoguerra. Una storia che è iniziata con la difesa del diritto al lavoro contro il rischio dell’ espulsione dalle fabbriche, in cui erano andate a lavorare per sostituire gli uomini in guerra, ha attraversato gli anni della ricostruzione, delle conquiste delle leggi di tutela della maternità e per la parità salariale. Un impegnativo cammino che si è snodato attraverso la conquista dei diritti del lavoro nell’Italia affrontando via via gli ostacoli del pregiudizio e dello stereotipo culturale fino al movimento femminista degli anni ’70, che ha contribuito in modo decisivo a traghettare l’Italia fuori dal medioevo.
Ma ne siamo veramente uscite? . Il Paese visto attraverso le donne non solo è in una profonda crisi istituzionale, politica, economica e morale, ma ne regredisce anche la sua cultura, ritornando prepotenti gli stereotipi. Il dominio sul corpo delle donne occupa in modo prepotente pubblicità e media, in una narrazione mediatica che si è finora accompagnata alla modesta rappresentanza delle donne nella politica.
Il contrasto agli stereotipi rientra negli obiettivi d’azione di pari opportunità e pari dignità ormai a tutti i livelli – internazionale, europeo e nazionale – e la stessa Convenzione per l’eliminazione delle discriminazione contro le donne delle Nazioni Unite richiede agli Stati di “prendere ogni misura adeguata al fine di modificare gli schemi ed i modelli di comportamento socioculturale degli uomini e delle donne e di giungere ad una eliminazione dei pregiudizi e delle pratiche consuetudinarie o di altro genere, che siano basate sulla convinzione dell’inferiorità o della superiorità dell’uno o dell’altro sesso o sull’idea di ruoli stereotipati degli uomini e delle donne”.
Il concorso “Premio Immagini Amiche”, promosso dall’Unione Donne in Italia (UDI) e dall’Ufficio d’Informazione in Italia del Parlamento Europeo, assegna un premio a quelle pubblicità contenenti rappresentazioni diverse di donne (e uomini), prive di stereotipi sessisti e che rendono onore alle reali capacità e identità della popolazione femminile Il concorso per le pubblicità non sessiste è un ottimo esempio di come i criteri della Convenzione possano essere tradotti facilmente in pratica e non professati solo a parole. Un modo per poter trasformare il senso comune e risollevare le sorti culturali del nostro Paese, perché una rappresentazione lesiva e distorta delle donne è mortificante non solo per le donne ma per tutta la società, per la nostra cultura e la nostra democrazia.
La scorsa estate mentre tutti i riflettori dei media erano puntati sulla Grecia, L’EIGE, l’Istituto Europeo per la Parità di Genere, ha presentato il “Gender Equality Index 2015”, che misura la parità di genere nell’UE e nei singoli stati membri. Articolandosi su 6 domini principali – lavoro, denaro, conoscenza, tempo, potere, salute – e 2 domini satellite – violenza contro le donne e disuguaglianze intersezionali – l’indice ci permette di avere una fotografia ben composita della situazione delle donne, ponendo attenzione alle diverse sfere della loro vita, e ci mostra le aree in cui, anche in quei Paesi che hanno legislazioni avanzate, l’esercizio pieno e paritario dei diritti fondamentali da parte di donne e uomini tuttora non è garantito né scontato. L’indice e il relativo rapporto purtroppo ci mostrano che, anche su questo fronte, la situazione europea è piuttosto critica: l’UE è ancora a metà strada nel percorso verso la parità tra uomini e donne, con un punteggio di 52,9 (su una scala da 1 a 100, dove 100 rappresenta la completa parità) e dal 2005 ad oggi il progresso è stato piuttosto marginale (si è passati da 51,3 a 52,9).
Alcuni Paesi hanno conseguito un punteggio superiore alla media europea: proviamo ad indovinare chi sono ???
In prima linea la Svezia, con un indice pari a 74,2, seguita dagli altri Paesi Scandinavi, Finlandia e Olanda. Altri Paesi, in particolare quelli di più recente adesione, si sono attestati su valori ben inferiori alla media. E l’Italia? Purtroppo tra i Paesi fondatori dell’UE è il fanalino di coda, con un indice di 41,1.
La sua performance è superiore alla media UE in un solo settore, quella della salute, grazie alla longevità delle donne italiane. In tutti gli altri campi la situazione è lungi dall’essere soddisfacente. Le politiche per affrontare lo squilibrio di genere sono state caute e i progressi in ambito giuridico sono stati promossi principalmente da direttive provenienti dall’UE o dalle pressioni esercitate dalla società civile. All’Italia manca un’adeguata infrastruttura di genere a livello centrale per promuovere, coordinare e monitorare le iniziative a favore dell’uguaglianza di genere. E forse manca anche la volontà politica.
Nel dominio “denaro”, ovvero il potere economico di uomini e donne in termini di guadagno, l’Italia presenta un valore simile alla media europea (68 contro il 67,8 dell’UE). Ciò significa che nel nostro Paese, come nel resto dell’UE, il divario salariale tra donne e uomini è ancora ampio e che la povertà colpisce di più le donne .
Nel dominio “conoscenza” i valori italiani si discostano parecchio dalla media europea: le donne italiane hanno in media titoli di studio più bassi (attainment) conseguiti per lo più in quelle discipline considerate comunemente femminili (segregation).
Anche nel dominio “potere” l’Italia si posiziona al di sotto della media europea, già di per sé bassa: le donne rivestono pochi ruoli di potere sia in ambito politico (29,6 contro 49,8) che economico, ovvero nei consigli d’amministrazione o nella direzione di grandi gruppi industriali o finanziari (16,1 contro 31,7).
Per quel che riguarda la gestione del tempo, ovvero la divisione della giornata tra lavoro e vita privata, è interessante notare che in media nell’UE l’indice è basso (37,6) e che in Italia è ancor più basso (32,4). Non solo. Poiché nella composizione dell’indice il tempo privato è distinto in attività di cura e attività sociali, notiamo che in Italia il tempo dedicato al lavoro di cura ha un valore abbastanza vicino alla media europea (40,4 contro 42,8), ma la partecipazione alle attività sociali e di svago scende a livelli visibilmente più bassi delle già esigue percentuali europee (26 in Italia e 33 nell’UE).
Ciò significa che la divisione del lavoro non retribuito tra donne e uomini nella sfera privata è ancora poco equilibrata in tutta l’UE, costituendo il principale ostacolo al raggiungimento di una reale parità di genere. Il dominio della salute è l’unico in cui apparentemente si registrano risultati più soddisfacenti, 89,5 in Italia e 90 nell’UE, ma considerando che la sfera della salute riproduttiva e della maternità non sono incluse nell’indice, non possiamo ritenerci davvero soddisfatte.
In Italia l’approccio generale prevalente alla salute delle donne è ancora circoscritto all’ambito della ginecologia e della salute riproduttiva. L’interruzione volontaria della gravidanza è disciplinata a norma di legge dal 1978. L’obiezione di coscienza del personale che pratica interventi ginecologici è consentita, anche nelle strutture pubbliche; la percentuale degli obiettori di coscienza è elevata e in aumento e tale fattore ostacola fortemente l’attuazione della legge. La legge 2004 in materia di procreazione medicalmente assistita era molto restrittiva, ma alcuni aspetti, considerati pericolosi per la salute della donna, sono stati modificati con numerosi interventi sia dei tribunali che della Corte costituzionale.
Benessere equo sostenibile BES è il progetto per misurare il benessere equo e sostenibile, nato da un’iniziativa congiunta del Cnel e dell’Istat, che si inquadra nel dibattito internazionale sul “superamento del Pil”, alimentato dalla consapevolezza che i parametri sui quali valutare il progresso di una società non possano essere esclusivamente di carattere economico, ma debbano tenere conto anche delle fondamentali dimensioni sociali e ambientali del benessere, corredate da misure di diseguaglianza e sostenibilità.
Il superamento del PIL ( in buona sostanza, il valore dell’insieme dei beni e servizi che, in un certo periodo, vengono prodotti nel territorio di una comunità (nazionale, locale, etc.) al netto dei beni e servizi consumati per produrli) lo strumento oggi maggiormente usato per calcolare la crescita economica e la sua sostituzione con il Bes (che costituisce una modalità di misurazione del benessere complessivo di una società che, in aggiunta ai meri dati economici, tenta di includere delle rilevazioni riguardo a diverse altre forme di benessere (fisico, relazionale, psicologico) si sviluppa all’interno di una nuova filosofia di vita conosciuta anche come che decrescita felice , da parole chiavi come Rivalutare, ridistribuire e rilocalizzare.
E ancora: ridurre, riciclare, riutilizzare e ristrutturare. Solo così, attraverso il “circolo virtuoso delle r” è possibile inventare un modo sostenibile di sopravvivere. Serge Latouche, francese, classe 1940, è l’economista-filosofo teorico della decrescita felice, dell’abbondanza frugale “che serve a costruire una società solidale”. Un’idea maturata anni fa in Laos, “dove non esiste un’economia capitalistica, all’insegna della crescita, eppure la gente vive serena”.
Una delle dimensioni per misurare il benessere è la conciliazione dei tempi di lavoro e di vita. Questa dimensione è volta a indagare la gestione dei tempi di lavoro e di vita in relazione agli impegni familiari. La compatibilità tra l’occupazione delle donne e la loro funzione riproduttiva è un obiettivo cruciale delle politiche del lavoro. La qualità dell’occupazione di un paese si misura anche sulla possibilità che le donne con figli riescano a conciliare i lavori di cura familiare con il lavoro retribuito.
In Italia I tassi dell’occupazione femminile rimangono bassi, soprattutto nel meridionale e, in generale, per le donne con un livello di istruzione basso. Sono state adottate leggi antidiscriminazione ma i divari di genere sono ancora grandi. La mancanza di servizi per l’infanzia e, soprattutto, per gli anziani, insieme a una rigida organizzazione del lavoro rendono difficile conciliare lavoro e famiglia. I tassi di disoccupazione femminile sono più elevati di quelli maschili; l’avanzamento nella carriera è difficile e le donne sono sovrarappresentate nei lavori atipici e precari
Si è registrato qualche miglioramento nei servizi di assistenza e custodia dei bambini, benché permangano grandi differenze fra regioni e città. Tuttavia la percentuale di bambini in età scolare accolti a tempo pieno è molto bassa. L’assistenza agli anziani grava pesantemente sulla famiglia e sull’aiuto delle “badanti”, ovvero donne immigrate provenienti principalmente dai paesi dell’Europa orientale. Questo corrisponde a ciò che è stato definito il “modello mediterraneo dello Stato sociale”, basato su trasferimenti monetari dallo Stato alle famiglie e sul lavoro non retribuito delle donne, per cui la famiglia è sempre stata la principale fonte di protezione sociale e di assistenza per gli italiani.
Pochi giorni fa sono state introdotte dalla Commissione Bilancio del Senato alcune novità alla legge di bilancio: il rifinanziamento del bonus baby sitter, il raddoppio a due giorni del congedo obbligatorio per i papà, oltre alla non tassabilitá per le imprese per le prestazioni di welfare aziendale.
Non esiste la possibilità di aumento dell’occupazione femminile se ad esempio non si investe sulle infrastrutture sociali perché è la loro assenza che spinge le donne a uscire dal mercato del lavoro. Così come l’organizzazione del lavoro nelle imprese fortemente rigida e autoritaria non consente né condivisione delle responsabilità familiari né conciliazione dei tempi e non aiuta a ridurre i differenziali salariali.
Unione europea ha istituito il 2 novembre l’Equal Pay Day, un’iniziativa per sensibilizzare l’opinione pubblica, le aziende, i manager e tutta la business community sul gender pay gap. Studiando gli stipendi orari medi nei paesi dell’Unione è emerso che le donne guadagnano 84 centesimi ogni euro incassato dagli uomini. La differenza tra le retribuzioni di donne e uomini è del 16,3% pari a 59 giorni lavorativi: dal 2 novembre alla fine dell’anno è come se le donne lavorassero gratuitamente. Questa ingiusta ed ingiustificata differenza si trasforma poi, nel lungo termine, in un gap pensionistico ancora più significativo del 39% dovuto anche alla maggior probabilità delle donne di avere carriere a intermittenza.
Finora per favorire l’inclusione delle donne nel mercato del lavoro, l’Italia non ha mai elaborato una strategia sistemica.
Una delle possibili risposte passa necessariamente anche tramite un rilancio dell’occupazione femminile, che viene interpretata da più parti come una misura anti-ciclica, capace di stimolare leconomia.
Per invertire il senso di marcia dell’occupazione delle donne bisogna percorrere altre strade, che prevedano investimenti pubblici e cambiamento dell’organizzazione del lavoro.
Dati sconfortanti anche per quel che riguarda l’accesso al credito dell’imprenditoria femminile, che ha maggiori difficoltà a essere finanziata rispetto a quella a conduzione maschile, sebbene dimostri superiori livelli di affidabilità nei rientri. E oltre il danno, la beffa: “Uno degli ostacoli principali alla concessione di un finanziamento è proprio la richiesta, da parte degli istituti di credito, del coinvolgimento del coniuge per dare garanzie. In regime di separazione dei beni o di separazione coniugale, ciò è di fatto quasi impossibile, perché rende la moglie imprenditrice dipendente dalla volontà del marito”.
La strada maestra in cui muoverci è quella di superare l’approccio di genere alla gestione della cura e all’accesso ai congedi così come auspicato nella recente legge delega sul lavoro, all’interno di un discorso più complessivo che riguarda una progressiva «territorializzazione» dell’organizzazione del lavoro volta a favorire la costruzione di sistemi di welfare aziendale. in alcune regioni d’Italia , in base ad accordi territoriali, esiste già la possibilità di utilizzare una programmazione negoziata con le aziende in merito ad esigenze legate alla flessibilità negli orari di lavoro, nell’organizzazione del lavoro (smart working, banca delle ore, job sharing, orario multi periodale) e alla conciliazione.
È innegabile che con gli accordi interconfederali del 2011-2014, quindi non riferibili alle attuali politiche del governo, nel nostro Paese si è avviato un progressivo indebolimento della contrattazione collettiva che ha condotto, senza paracadute, verso una progressiva aziendalizzazione del sistema di relazioni industriali che ha compresso la rappresentanza sociale, agganciando ancora una volta il salario alla produttività. Questo mutamento, in un Paese che vede ancora grandi disuguaglianze rispetto alle donne sul tema salariale e di accesso alle carriere, ha ulteriormente sfavorito il percorso di riconoscimento delle donne come elemento di sviluppo e crescita dell’economia.
La percentuale di donne in posizioni dirigenziali è stata terribilmente bassa fino a poco tempo fa, nel settore sia pubblico che privato. Vi sono miglioramenti in corso grazie all’introduzione di quote obbligatorie nei consigli d’amministrazione delle società quotate in borsa nel 2011, e in società appartenenti alla pubblica amministrazione nel 2013. Non esistono quote di genere obbligatorie nel parlamento italiano, ma esistono quote per i governi locali, in cui devono essere rappresentati entrambi i sessi .
Oggi è il 25 novembre. Alcune di voi si ricorderanno dell’iniziativa che abbiamo organizzato a settembre di due anni fa a Roma dal titolo “ Non una di più”, occasione in cui insieme ad emerite ospiti ( quali dal vicepresidente del senato , la resp. del centro antiviolenza di Roma , due avvocate che lavorano con i centri antiviolenza , la ricercatrice dell’Istat e co-autrice del libro “Ferite a morte” e un pubblicitario) , ci siamo confrontate sul problema della violenza sulle donne, come fenomeno strutturale di questa società che deve essere sconfitto attraverso un approccio integrato tra prevenzione, protezione e punizione.
Ci siamo interrogate sull’attività di formazione intesa come riconoscimento delle molteplici forme in cui si può manifestare la violenza e su come agire nei luoghi deputati a trasmettere i modelli culturali.
La scuola è il luogo più importante in cui si formano le giovani generazioni secondo i valori della cittadinanza democratica, della pluralità, dell’uguaglianza e del rispetto delle diversità. E allora che senso ha privarla del compito di dare gli strumenti e le basi per costruire relazioni fondate sul rispetto dell’altro sesso e sulla parità di genere? Perché lasciare questo compito solo alle famiglie e non prevedere che sia del personale preparato ed esperto a contribuire ad una crescita sana e consapevole delle nuove generazioni?
La promozione della parità di genere all’interno dei sistemi educativi è un pre-requisito fondamentale per il raggiungimento della parità de facto tra donne e uomini nella vita privata, pubblica e all’interno della società. L’Italia è uno dei pochi paesi europei che non ha ancora elaborato politiche per la parità di genere in ambito educativo e su questo è già stata ripetutamente sollecitata sia dal Consiglio d’Europea che dalle Nazioni Unite
La violenza sessuale è stata riconosciuta in quanto “reato contro la persona” solo nel 1996. Lo stalking (atti persecutori) è divenuto un reato perseguibile grazie a una legge adottata nel 2009. La Convenzione del Consiglio d’Europa sulla violenza contro le donne e la violenza domestica (la cosiddetta Convenzione di Istanbul) è stata convertita in legge nel 2013 dopo essere stata approvata all’unanimità del parlamento, ma la rete dei centri antiviolenza manca di fondi e di risorse. Nel complesso il sistema italiano per la protezione delle vittime della tratta di esseri umani è coerente con i principi guida adottati a livello internazionale. Nel 2006 sono entrate in vigore delle nuove leggi volte a punire lo sfruttamento sessuale dei bambini e la pedopornografia e a vietare la mutilazione genotale femminile.
In questo panorama ci siamo noi, donne del Coordinamento, che abbiamo continuato un percorso, gia’ intrapreso da molte compagne prima di noi, con molti obiettivi, alcuni pienamente raggiungi ed altri appena accennati, fra tutti quello di far vivere questo luogo come un laboratorio in cui le donne si ritrovano, si confrontano , crescono in competenza, approfondiscono e divulgano le politiche di mainstreaming e quelle sindacali, lette con ottica di genere.
Un luogo aperto, in cui ci siamo dotate di strumenti idonei ad una nostra crescita qualificata che ci ha permesso di occupare i posti apicali di questa organizzazione (vedi il numero delle seg. Generali donne). E’ indiscutibile infatti che le donne ottengono risposta alle proprie domande di rappresentanza quando riescono a mobilitarsi e a dotarsi di una qualche forma di organizzazione interna.
A casa nostra, in CGIL, questo è avvenuto grazie all’efficacia di misure antidiscriminatorie: in questo caso appare chiaro come strategie di fast track (leggi percorso veloce per incrementare la presenza delle donne) siano le più adeguate per garantire risultati significativi nel breve periodo. Se è vero, infatti, che si è registrato un graduale aumento della presenza femminile nei luoghi decisionali negli anni fino al 1996, è tuttavia proprio da questa data, in cui vengono adottate le quote, che il numero delle donne presenti nei livelli apicali conosce un’impennata. Interessante la strategia adottata per rendere accettate le quote: in un primo tempo infatti la quota femminile viene “aggiunta” alla composizione degli organismi dirigenti aumentando il numero dei componenti e solo successivamente essa viene introdotta in un’ottica sostitutiva.
Rimane il problema del nesso tra quello che gli studi sulla rappresentanza politica chiamano la rappresentanza descrittiva (vale a dire i numeri) e la rappresentanza sostanziale (vale a dire la capacità di influenzare e cambiare le modalità di funzionamento dell’istituzione o dell’organizzazione e la stessa agenda politica) .
Siamo però convinte sul fatto che un maggior numero di donne nel ruoli decisionali faccia la differenza. Nel senso che le donne promuovendo iniziative a favore delle donne nel campo della formazione e della contrattazione di genere, realizzano una rappresentanza differente, legata ad una diversa visione del potere, una maggiore sensibilità verso problemi di tutti grazie a capacità che sono proprie delle donne. Le donne si sentono rappresentative di tutti perché agiscono con un “occhio di genere”, attento alle differenze di ciascuno perché attento alle differenze delle donne.
Come Coordinamento e come esecutivo in questi anni abbiamo affrontato una molteplicità di aspetti attinenti al mondo del lavoro, della cultura, dei diritti.
Ci siamo occupate di tematiche più squisitamente sindacali, partendo dalle proposte in sede di rinnovo dei contratti nazionale, così come anche dall’entrata in vigore di alcuni provvedimenti legislativi che hanno avuto un forte impatto sulla vita delle lavoratrici: genitorialità, congedi parentali, part-time, telelavoro.
Ci siamo occupate, sempre in un’ottica di genere, delle ricadute di alcuni grandi riorganizzazione bancarie così come della discrezionalità degli avanzamenti, verifiche su promozioni, retribuzioni e gradi ricoperti, disparità di condizioni retributive, organizzazione aziendale, licenziamenti e dimissioni in bianco.
Ci siamo occupate dela gestione del tempo, leggasi straordinario e riunioni post-orario (fenomeno frequente anche nell’attività sindacale) da cui scaturisce poi una diversa condivisione dei carichi familiari, su cui abbiamo organizzato anche un corso di formazione, e della lotta agli stereotipi e alle discriminazioni nei luoghi di lavoro come nella quotidianità, che oltre ad iniziative anche a livello territoriale, trova il suo emblema nella tradizione del calendario 8 marzo, vanto di questa organizzazione.
Questo coordinamento è il luogo che le donne hanno protetto, quasi difeso, dai meccanismi e dalle dinamiche, a volte perverse che purtroppo attraversano i luoghi del sindacato. Non è stato facile, negli anni, sottrarlo alle logiche spesso contorte della nostra organizzazione che in nome del rispetto di sensibilità, mozioni, aree programmatiche, crea barriere, divisioni e contrapposizioni che poco hanno a che fare con il nostro lavoro e impegno di sindacalisti e sindacaliste.
Quegli stessi rituali che noi donne invece abbiamo superato in nome di un progetto comune a cui tutte voi avete partecipato, consapevoli che solo attraverso il contributo di ognuna di noi possiamo migliorare, cambiandola, questa organizzazione e quindi ripartire da oggi, da domani con nuove forze, con una nuova energia.
Rinnovandosi nelle persone , nelle strategie ma non nell’idea fondante che solo da un pieno riconoscimento del nostro ruolo dentro l’organizzazione che abbiamo deciso di vivere come sindacaliste, lavoratrici, madri e figlie e sorelle, può discendere un sindacato migliore, più attento ai bisogni e alle necessità di tutti e di tutte nel pieno rispetto delle differenze e delle sensibilità
Questi quattro anni, che per molte di noi sono stati anche otto, sono stati ricchi di esperienze e di momenti di grande significato. Le nostre riunioni sono stati occasioni preziose, in cui le tematiche sindacali e lavorative si fondevano con quelle più private e personali, senza liturgie e stupidi rituali. A voi va il nostro sincero e ringraziamento perchè avete riempito questo luogo di contenuti, di idee , di vitalità, a volte, perché no?, anche di critiche, ci avete dato le gambe x camminare, x scalare la montagna . Da oggi, da venerdì, nuove compagne riceveranno in dote quello che tutte noi abbiamo costruito e continueranno il percorso, sempre in salita, ma mai da sole, nella convinzione che un’organizzazione, un paese, una società che riconosce uguaglianza di genere è un paese più civile.
Relazione Fiordelli
Relazione Canton
Relazione Assemblea Nazionale Donne 2015