da repubblica.it – La disparità sugli stipendi regala agli uomini un vantaggio di due mesi. La popolazione femminile dell’Europa è avvisata: fino a Capodanno non c’è salario. Perché il gap fra le retribuzioni dei due sessi è ancora considerevole Così, traducendolo in tempo, ci sono 59 giorni regalati. Per non parlare delle mancate assunzioni, delle carriere ferme e dei ricatti sulle gravidanze.
Gratis. Sembra incredibile, ma è così. Da oggi, più o meno, le donne in tutta Europa lavoreranno gratis. Non è uno scherzo, lo dice la Ue. È il paradosso (globale) della differenza di salari tra maschi e femmine. Una beffa del calendario della vita. Il “gender pay gap” calcolato non soltanto in denaro ma in giorni e ore. Gli stipendi delle donne sono così inferiori rispetto a quelli dei maschi, che a parità di incarichi e ruoli, è come se da oggi le lavoratrici smettessero di essere pagate, mentre i colleghi uomini continueranno ad avere in tasca lo stipendio. E di certo fa effetto a “contarla” così la differenza, ossia quel 16,3% che nella media europea separa i guadagni maschili da quelli femminili. Perché tradotti in “tempo” (cioè vita, carriera, affetti, figli, famiglia) fanno esattamente 59 giorni gratis, così ha calcolato la Ue per celebrare (amaramente) “l’Equal Pay Day”, il giorno dell’eguaglianza dei salari.
Un giorno che sembra lontanissimo a giudicare dai dati europei, a dispetto di quote rosa, supermanager strapagate, ma anche dell’esercito crescente di donne capofamiglia, “breadwinner”, cioè uniche portatrici di reddito negli anni bui della crisi. In Italia, a sorpresa, il “gender pay gap”, appare più basso che nel resto d’Europa, con retribuzioni femminili inferiori del 7,3% rispetto a quelle maschili. Si tratta però di una statistica ingannevole, come hanno rilevato più osservatori (Istat, Isfol, Banca d’Italia), che non tiene conto della bassa occupazione femminile del nostro paese, cioè al di sotto del 50%, in particolare al Sud, dove una donna su due non lavora. E il vero gap made in Italy sfiorerebbe addirittura il 20% di differenza. Dove tutto questo vuol dire, anche, donne ricattate, dimissioni in bianco, giovani licenziate perché incinte.
Tornando alla media Ue, e passando questa volta dalla divisione in giorni al conteggio in denaro, si scopre che una lavoratrice incassa 84 centesimi per ogni euro guadagnato da un maschio… Insomma a guardare i numeri sembra che il tempo non sia passato, a riprova della amara attualità di un film come “Suffragette”, con Meryl Streep, che rievoca gli albori del movimento femminista in Inghilterra. Valeria Fedeli, oggi vicepresidente del Senato, è stata a lungo sindacalista della Cgil, in particolare segretaria generale dei lavoratori tessili. Un settore ad altissima densità femminile. “Devo dire che questa volta la commissione europea ha trovato lo slogan giusto per accendere i riflettori su questa discriminazione ancora così grave, ma così difficile da combattere. Perché sulla carta la parità salariale esiste, addirittura dal 1952. È tutto il resto ad essere opaco”. Nel senso che poi, nel mondo del lavoro, dice Fedeli, le donne subiscono nei fatti una sorta di segregazione. “Fin dall’accesso vengono inquadrate in ruoli più bassi rispetto ai maschi, e viene fatto loro pagare, in anticipo, l’essere a rischio di maternità. Infatti, nonostante le leggi, nelle aziende la maternità viene considerata un problema, un onere e non un bene sociale. Si pensa che le donne siano meno affidabili perché un giorno o l’altro il bambino si ammala. E chi corre a casa? La mamma. E poi c’è l’organizzazione del lavoro, che prima o poi le taglia fuori, soprattutto quelle che hanno una famiglia”.
Accade così: lo stipendio base è lo stesso, ma spesso la presenza in azienda no. Nel senso che i maschi, non occupandosi della vita familiare, “possono fare montagne di straordinari, passano molto più tempo oltre l’orario canonico sul posto di lavoro, mentre le donne devono spezzettare la loro giornata tra figli, incombenze domestiche, genitori anziani”. Tutte attività rigorosamente ” non retribuite”. Succede dunque che in questa organizzazione del lavoro ancora rigida, le donne si fermino nei ruoli intermedi o bassi e i maschi facciano carriera, conquistando denaro e punteggi. “Se anche il Papa ha sentito il bisogno di parlare delle scandalo delle lavoratrici licenziate perché incinte”, dice ancora Valeria Fedeli, “è evidente quanto il problema del ricatto sull’occupazione femminile sia grave”. A cominciare dalla piaga delle dimissioni in bianco, oggi vietate ma in realtà assai praticate, al numero crescente di “scoraggiate”, ossia quelle donne, anche giovani, e soprattutto del Sud, che il lavoro non lo cercano neanche più.
Dunque è una nuova condivisione di ruoli in famiglia tra maschile e femminile, ma soprattutto una organizzazione del lavoro meno ingiusta che potrebbe far superare, nel nostro paese, il “gender pay gap”. Divario che in Italia va peggiorando, visto che nel 2008 era del 4,9%, nel 2009 del 5,5%, e nel 2015, cioè oggi, dopo anni di durissima crisi, è al 7,3%. Con un elemento ancora più preoccupante, come sottolinea la relazione della commissione Europea. E cioè che la differenza di salario si allarga con l’avanzare dell’età, e diventa un “buco nero” quando si arriva alla terza età: le over sessantenni sono costrette a vivere con pensioni inferiori del 39% rispetto ai loro (attempati) coetanei, che siano mariti o colleghi di lavoro. Un esempio nella pur avanzatissima Finlandia: qui il “gender gap” passa dal 6,3% delle under 25, al 25% delle donne in età della pensione.
Ma oltre a tutto questo, oltre dunque ad una reale e tangibile discriminazione, non ci sarà anche un problema femminile di auto-promozione nel mondo del lavoro? Carmen Leccardi insegna Sociologia del Lavoro all’università Bicocca di Milano, ed è responsabile scientifica del “Centro inter-universitario culture di genere”. “Dire che da oggi le donne lavoreranno gratis, perché per loro le riserve sono finite, mi fa pensare a quando si sottolinea che ormai abbiamo consumato tutte le risorse del pianeta e iniziamo semplicemente a sopravvivere… Del resto impedire alle donne di esprimersi al cento per cento è come togliere aria all’ambiente in cui viviamo, e abbassare di non pochi punti il Pil”.
Più concretamente, anche per Carmen Leccardi il gap salariale è una diretta conseguenza di una “ineguale divisione della cura della famiglia e dei figli”. Asimmetria della quale le aziende (tranne poche) approfittano, considerando appunto le donne un po’ meno affidabili, perché prima o poi vorranno, forse, diventare madri. E l’auto- promozione? Per Leccardi è un falso problema. “Non è vero che le donne non sanno chiedere una promozione o valorizzare le proprie competenze, in particolare le più giovani. Il problema è la distanza, anche in questo caso, tra ciò che il mondo femminile sa di essere, e come è rappresentato nella società “. Così a volte accade, che con il realismo e lo sguardo al futuro che le distingue, le donne preferiscano accontentarsi di un ruolo più in ombra, che però permetterà loro di conciliare
l’essere madri e lavoratrici insieme. “Prima magari di ritrovarsi – conclude Leccardi – davanti ad una scelta obbligata e dover sacrificare un pezzo o l’altro della propria identità”.