Roma, 21 settembre 2015
L’appalto nel codice civile è regolato dall’art 1655 che lo definisce come: “ il contratto col quale una persona assume, con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio, il compimento di un’opera o di un servizio, verso un corrispettivo in denaro”: Requisito indispensabile affinché l’appalto sia legittimo è, quindi, che l’appaltatore abbia una sua autonomia, nel senso che non sia un mero esecutore di colui che conferisce l’incarico, il committente, ma sia in possesso di una sua specifica competenza e abbia la libertà circa modalità tecniche da adottare per pervenire al “risultato”, che gli è stato per l’appunto commissionato.
Negli anni 50, però, l’appalto, specialmente nel settore dell’agricoltura e in quello edilizio, venne utilizzato in maniera illecita per dare vita ad un diffuso fenomeno criminale, avente ad oggetto lo sfruttamento della manodopera lavorativa, tanto che venne definito “la piaga del caporalato”. Il termine derivava dal nomignolo “caporale” affibbiato all’individuo che, solitamente, nelle primissime ore del giorno adescava manodopera giornaliera per metterla a disposizione, a basso costo, di un altro soggetto, fosse questi impresa o persona singola.
Per arginare questo fenomeno criminale il Parlamento fu necessariamente indotto ad emanare la Legge 23 ottobre 1960, n. 1369 sul “divieto di intermediazione ed interposizione nelle prestazioni di lavoro e nuova disciplina dell’impiego della manodopera negli appalti di opere e servizi”.
L’art 1 di tale Legge vietava al committente, di affidare in appalto o in subappalto o in qualsiasi altra forma, anche a società cooperative, l’esecuzione di mere prestazioni di lavoro mediante l’impiego di manodopera assunta e retribuita dal “pseudo appaltatore” o mero intermediario. Lo stesso articolo prevedeva la tutela dei dipendenti del soggetto interposto, prevedendo, in caso di ricorso in giudizio da parte di questi, la costituzione di un rapporto di lavoro diretto con il committente, in quanto effettivo e reale utilizzatore delle prestazioni. Tale Legge 1369/60 prevedeva all’art 3 una norma molto importante, ma che fu forse sottovalutata nella sua effettiva applicazione, e cioè che “ gli imprenditori che appaltano opere e servizi…. Da eseguirsi all’interno dell’azienda con organizzazione e gestione propria dell’appaltatore, sono tenuti in solido con quest’ultimo a corrispondere ai lavoratori da esso dipendenti un trattamento minimo inderogabile retributivo e ad assicurare un trattamento normativo non inferiore a quello spettante ai lavoratori da loro dipendenti”. Questa norma individuava, anche nell’appalto lecito, la necessità di evitare che tra lavoratori dipendenti del committente e lavoratori dipendenti dall’appaltatore potessero sussistere differenze di condizioni economiche/normative nello svolgimento di medesime attività nel ciclo produttivo della stessa azienda. Quindi stabiliva l’equiparazione del loro trattamento economico e normativo, limitatamente alla durata del contratto di appalto, e a tal fine estendeva, in pratica, l’applicazione degli stessi contratti di lavoro, sia nazionale sia integrativo, dell’impresa committente.
Da decenni, ormai, si assiste alla violazione del divieto di interposizione fittizia di manodopera nei processi di appaltizzazione, aumentati esponenzialmente.
Senza contare che la piaga del caporalato agricolo non solo non è stata debellata, ma sta trovando una sua violenta recrudescenza soprattutto a danno e sfruttamento dei lavoratori migranti.
Quando negli anni 70 si sviluppò il settore dell’informatica, anche nel credito e nelle assicurazioni, piano piano, si assistette al prolificare dei processi di appaltizzazione endogeni, vale a dire con l’utilizzo dei lavoratori dell’appaltatore all’interno dell’azienda del committente. Fu rarissimo il caso di richieste sindacali che rivendicassero l’applicazione, nei contratti di appalto lecito, di tale norma. Così come, in seguito, quando questi appalti assunsero una configurazione illecita, permettendo in maniera smaccata la violazione del divieto di interposizione fittizia di manodopera, non ci fu una decisa azione che impedisse questo comportamento illegittimo delle aziende.
Quasi sempre si assiste, nel caso degli appalti endogeni, al fatto che un responsabile aziendale del committente eserciti il potere organizzativo e direttivo non solo sui lavoratori della sua azienda, ma anche nei confronti dei dipendenti di imprese appaltatrici che applicano altri contratti.
Un divieto quello dell’interposizione fittizia di manodopera che è sopravvissuto anche all’abrogazione della legge 1369/60 da parte del Decreto Legislativo 276/2003. Un decreto che abolisce l’art 3 della 1369/60, anche questo molto inviso ai datori di lavoro per il suo principio di parità tra il trattamento economico e normativo tra i lavoratori del committente e quelli dell’appaltatore, ma di fatto ha mantenuto in vigore il divieto di interposizione fittizia di manodopera. Infatti, l’art 29 -appalto- di tale decreto così recita: “ ai fini dell’applicazione delle norme contenute nel presente titolo, il contratto di appalto, stipulato e regolamentato ai sensi dell’art 1655 del codice civile, si distingue dalla somministrazione di lavoro per l’organizzazione dei mezzi necessari da parte dell’appaltatore, che può anche risultare, in relazione alle esigenze dell’opera o del servizio dedotti in contratto, dall’esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati nell’appalto, nonché per l’assunzione da parte del medesimo appaltatore, del rischio di impresa” L’apparato sanzionatorio, in caso di violazione di tale norma, è rimasto pari a quello della 1369/60.
Il degrado nei processi di appaltizzazione è andato sempre più aumentando con il diffondersi della pratica del subappalto e del subappalto del subappalto.
Il subappalto è il contratto con cui l’appaltatore affida ad un terzo l’esecuzione parziale o totale dell’opera o del servizio che si è impegnato a compiere in forza di un precedente contratto di appalto, ferma restando la responsabilità dell’originario appaltatore nei confronti del committente per l’esecuzione dell’opera o del servizio. Tale nozione è ricavabile dall’art 1656 del codice civile, titolato “subappalto”, che si limita a prevedere che l’appaltatore non può dare in subappalto l’esecuzione della prestazione, se non è stato a ciò autorizzato dal committente.
Nella filiera del ciclo produttivo di un’azienda, dove la fase finale è composta da attività in appalto o subappalto, può essere difficile che regni sempre la legalità e che invece vi si possano annidare il lavoro nero, le false collaborazioni e partite IVA, o altre forme di soprusi nei confronti dei lavoratori.
Purtroppo nella maggior parte dei casi, questi lavoratori non hanno la forza di difendere i loro diritti, per il timore di perdere anche “uno straccio di lavoro”, indispensabile per il sostentamento loro e della propria famiglia.
E’ necessario che sia il Sindacato ad intervenire denunciando alla Magistratura o alle competenti Direzioni Provinciali del Lavoro le violazioni di norme contrattuali e di legge, e ciò significa controllare in maniera capillare ciò che avviene nelle aziende del territorio di competenza.
Per quanto concerne, il rapporto con le Direzioni provinciali del Lavoro, esse sono tenute sempre a dar seguito alle segnalazioni, ovviamente circostanziate, che giungono da parte sindacale, poiché un comportamento omissivo si configurerebbe come “omissione di atti di ufficio”.
Se il sindacato non adotta una linea d’azione comune, che coinvolga tutta la sua organizzazione, per debellare questi fenomeni criminosi, perseguendola coerentemente, non solo non rappresenterà mai questi lavoratori, ma è destinato inevitabilmente ad una sempre maggiore marginalizzazione nel mondo del lavoro.
Una linea d’azione di questo tipo non può prescindere da un elemento fondamentale: un’esaustiva informativa sindacale sugli appalti e relativi subappalti. Se si pensa che, nell’intero panorama dei contratti nazionali di categoria, è quello del credito, con tutte le sue evidenti lacune, che risulta avere la normativa migliore, si ha un’idea di quanto si sia lontani dall’obiettivo di avere una conoscenza approfondita del ciclo produttivo di un’azienda. E’ necessaria un’informativa sugli appalti e sui subappalti, con l’indicazione del numero dei dipendenti impiegati, la tipologia dei contratti di lavoro e una descrizione dettagliata delle attività nelle quali i lavoratori sono impiegati. Altrimenti le affermazioni sindacali di voler ingaggiare una battaglia contro il lavoro nero e contro le forme illegittime di precariato divengono solo delle mere enunciazioni di principio, che non incidono in alcun modo sulla vita di questi lavoratori, assoggettati quasi sempre a pratiche di sfruttamento.
Ciò che, però, lascia maggiormente sconcertati, nei processi di appaltizzazione, è la loro antieconomicità. Infatti dagli atti presentati, dalle aziende del credito e assicurative nel corso di giudizi derivanti da cause intentante dai lavoratori che richiedevano la trasformazione del loro rapporto di lavoro in contratto a tempo indeterminato direttamente alle dipendenze del committente, a causa della violazione da parte del committente delle norme riguardanti l’interposizione fittizia di manodopera, emerge un dato eclatante: fatto 100 il costo di un lavoratore assunto direttamente dall’azienda, questo importo lievita fino a raggiungere il doppio o in molti casi il triplo, se l’azienda utilizza per identiche mansioni il lavoratore tramite un appaltatore.
E non si tratta, nella maggioranza dei casi, nemmeno di appalti con una durata temporanea di mesi, che pure giustificherebbero e spiegherebbero poco un comportamento del genere, ma di contratti che, di rinnovo in rinnovo, si protraggono per decenni.
E’ evidente come, alla base di ciò, ci siano anche altri interessi.
Scoprire quali è, anch’esso, compito e dovere dell’azione sindacale a tutela generale degli interessi dei lavoratori.
DIPARTIMENTO APPALTI, LEGALITA’, MONETICA