da Repubblica.it – Il testo impone, dal 2017, la comunicazione delle informazioni non finanziarie per tutte le imprese con più di 500 dipendenti e per quelle di interesse pubblico. La posizione dell’Italia: c’è ancora molto da fare, ma rispetto ad altri Paesi Ue le aziende italiane hanno fatto progressi.
ROMA – È in fase di recepimento la Direttiva comunitaria 95/2014, approvata nel corso del semestre italiano della presidenza Ue, che impone, a partire dal primo gennaio 2017, la comunicazione delle informazioni non finanziarie per tutte le imprese con più di 500 dipendenti e per quelle aziende che il legislatore nazionale riterrà di interesse pubblico. Si apre quindi un dibattito, aperto ufficialmente lo scorso 21 luglio nel corso di un incontro svolto alla Sala del Refettorio e promosso dal Gruppo parlamentare del PD in collaborazione con l’Osservatorio Socialis, su una norma che, una volta approvata, potrà incidere profondamente sulla trasparenza delle imprese e sul loro modo di essere e stare nel mercato e nei territori.
All’incontro, coordinato da Paolo Coppola (Commissione Trasporti e Presidente Tavolo permanente per l’innovazione e l’agenda digitale italiana) e Chiara Scuvera (Commissione Attività Produttive, Commercio e Turismo) hanno anche partecipato Sandro Gozi (Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega agli Affari Europei), Tiziana Pompei (Vice Segretario generale Unioncamere) e Giovanni Lombardo (Docente Università di Genova).
Le evidenze: innanzitutto è apparso chiaro quanto la norma ricada, per quanto riguarda il nostro Paese, su un terreno fertile, che ad oggi, sebbene su base prevalentemente volontaria, ha già dato i suoi frutti. In secondo luogo il convegno ha fatto emergere la volontà/necessità di creare un percorso, fatto di ulteriori incontri di approfondimento estesi a parlamentari delle diverse commissioni, con l’obiettivo di semplificare e rendere concreti i vantaggi, per le imprese che operano nel nostro Paese, di lavorare in maniera integrata e riconosciuta all’interno di comportamenti socialmente responsabili. Per il bene proprio e per la crescita dell’Italia.
La norma dice infatti che si dovranno rendicontare quelle informazioni “non finanziarie” che non trovano una collocazione nei bilanci di esercizio e che riguardano “le informazioni ambientali, sociali, attinenti al personale, al rispetto dei diritti umani, la lotta alla corruzione attiva e passiva in misura necessaria alla comprensione dell’andamento dell’impresa, dei suoi risultati, della sua situazione e dell’impatto della sua attività” costringendo quindi ad un approccio multidimensionale. L’Italia a che punto sta? A buon punto. Certo, da fare ce ne è e molto, ma rispetto ad altri Paesi Europei (i grandi) le aziende italiane hanno fatto molti progressi in termini di accoglimento volontario della reportistica CSR e di sostenibilità.
Ce lo ha detto il VI Rapporto sull’impegno sociale delle aziende in Italia, realizzato dall’Osservatorio Socialis, l’unico rapporto che indaga il fenomeno in questione dal 2002, che rileva che 73 aziende su 100 sono impegnate sul tema della CSR con azioni concrete e reportistica.
Il legislatore ha modo di intervenire su almeno due aspetti:
– il primo è la definizione della platea a cui rivolgere la direttiva. Il testo parla di aziende con più di 500 dipendenti (quindi, secondo le stime di Unioncamere circa 400 aziende in Italia e 6000 in Europa) ma si potrebbe adottare una definizione di “aziende di interesse nazionale” tale da ampliare molto il pubblico dei destinatari;
– potrebbero poi esserci delle aziende che pur non rientrando nell’ambito di applicazione (hanno un numero di dipendenti inferiore a 500) decideranno (perché “ascoltano” il mercato, i dipendenti e tutti gli stakeholders) comunque e su base volontaria di adeguarsi e si potrebbero pensare a delle forme di premialità per questi soggetti.
E le imprese? Attraverso la trasparenza delle informazioni non finanziarie si porrà in maniera più forte il tema del rapporto tra le imprese e i territori, le comunità in cui si trovano. E questo è un tema che riguarda più le imprese di grandi dimensioni che non le piccole, per evidenti ragioni di diversa dimensione dell’impatto. Starà poi a loro cogliere l’elemento di vantaggio competitivo insito nella norma che sarà recepita: il sistema Italia è competitivo
sul tema della sostenibilità e della CSR e rendere questo aspetto più visibile consentirà un maggiore attrazione di investimenti, una maggiore forza a livello europeo. Per questo la Direttiva 95 è un’opportunità, che non possiamo permetterci di perdere.