Produttività: un accordo separato contro i lavoratori e contro il Mezzogiorno

Il recente accordo sulla produttività siglato dalle imprese (tra cui anche ABI e ANIA) dal governo e da parte del sindacato è un ulteriore passo verso la definitiva distruzione della contrattazione collettiva nazionale ed è coerente con l’accordo separato del 2009, che ne spianava la strada.

Questo accordo è contro i lavoratori perché:

– Elimina il meccanismo del recupero inflattivo, superando perfino l’indice IPCA (un indicatore dei prezzi al dettaglio);

– Sposta quote di salario da contrattare dal Contratto Nazionale a quello Aziendale;

– Di fatto elimina i minimi contrattuali previsti per tutti i lavoratori della stessa categoria, aprendo così una feroce competizione al ribasso tra i lavoratori delle aziende dello stesso settore;

– Sposta anche sul livello aziendale la contrattazione di temi importanti quali gli orari, le mansioni e i controlli a distanza sui lavoratori, preparando anche su questi capitoli una concorrenza al peggioramento delle condizioni normative;

– Rafforza ulteriormente il concetto, già presente nell’art. 8 della legge Sacconi, che accordi aziendali possano derogare non solo a norme del CCNL, ma anche alle stesse leggi.

In una parola svuota di contenuti la contrattazione nazionale che garantiva a tutti lavoratori uguali condizioni, dai minimi salariali alla articolazione degli orari alle mansioni, ecc.

Inoltre la tanto decantata defiscalizzazione del salario aziendale non solo non recupera l’aumento dell’inflazione, ma esclude milioni di lavoratori delle piccole aziende da qualsiasi aumento salariale. Infatti oggi la contrattazione aziendale, quella su cui ricadrebbe tutto il ruolo del recupero salariale, interessa solo 22.000 aziende su un totale di oltre 4 milioni. Questo accordo colpisce proprio la parte più debole e più numerosa del mondo del lavoro, quella che già oggi, non contrattando alcuna quota di salario aziendale, si vedrebbe ulteriormente privata anche degli aumenti del CCNL.

Una defiscalizzazione per pochi, limitata nel tempo e negli importi è davvero poca cosa per essere contrabbandata per misura a favore della produttività. Se poi si considera che analoghe misure di defiscalizzazione – non alternative al CCNL – sono state già sperimentate dal 2007 a oggi e che i risultati sono stati davvero minimi, si comprende che non è sulla compressione del lavoro che bisogna agire per uscire dalla crisi e aumentare la produttività.

In questo senso i dati Ocse sono davvero illuminanti: i salari in Italia sono tra i più bassi della Unione Europea e della stessa OCSE; mentre si lavorano 1774 ore all’anno (200 in più della media UE) con un prodotto lordo per ora lavorata di 45,6 dollari; in Germania, invece dove i salari sono molto più alti e si lavorano 1.411 ore all’anno – ben 360 in meno rispetto a noi – hanno un prodotto lordo per ora lavorata di 55 dollari. Sono i dati OCSE a dimostrare quindi che la produttività non dipende dai salari bassi e dagli orari lunghi, ma dalla capacità di innovare il processo produttivo e il prodotto da vendere; da quella capacità di investimento, che in Italia è in discesa da anni molti anni a questa parte.

Questo accordo è contro il Mezzogiorno perché:

– E’ qui che si concentra la presenza di piccole e piccolissime aziende, che spesso già oggi non applicano lo stesso CCNL, figurarsi poi la contrattazione integrativa;

– Esiste già una differenza salariale con il Centro-Nord di circa 20 punti, dovuta in massima parte alla mancata contrattazione salariale su base aziendale. Si calcola infatti che l’incidenza del salario aziendale su quello totale al Sud è del 6,3%, mentre la media nazionale si attesta sul 14,1%.

– La possibilità di derogare alle leggi e ai Contratti nazionali aprirà la strada ancor più a una totale deregolamentazione degli orari e delle condizioni di lavoro. Inutile stupirsi o fingere di commuoversi davanti alle continue stragi di lavoratori e lavoratrici – si pensi alle operaie di Barletta morte sotto le macerie della fabbrichetta per pochi euro – se poi la strada imboccata è quella di accrescere il dumping sul costo del lavoro, la concorrenza più spietata tra i lavoratori a chi si fa pagare di meno e sfruttare di più per garantirsi un lavoro, spesso precario e sottopagato.

Nel nostro settore

Questo accordo, ispirato e sostenuto anche dall’Abi e dall’Ania, avrà forti ricadute anche nel nostro settore, già alle prese con una ristrutturazione pesante, cui si accompagna un profondo processo di dismissione delle attività bancarie e assicurative nel Mezzogiorno.

Il forte indebolimento del CCNL aprirà un solco tra le condizioni salariali e normative dei lavoratori delle aziende più grandi e di quelli delle aziende più piccole, del Nord e del Sud, non prevedendo più quel collante di condizioni minime e uguali per tutto il settore. E sarà ancor più un disastro per i lavoratori delle agenzie assicurative, delle finanziarie, ecc. che in realtà già oggi hanno come unica copertura contrattuale solo quella nazionale.

Infine assume una maggiore gravità che, su temi di tale portata, chi firma non senta il dovere di confrontarsi con i lavoratori, non senta il dover di pesare la propria reale rappresentanza.

A partire da questa scelta della CGIL di non firmare l’ accordo sulla produttività è sempre più urgente costruire tutte le iniziative necessarie per

difendere il contratto nazionale di lavoro;
garantire a tutti il recupero dell’inflazione e condizioni normative e di orario su base categoriale, migliorabili, ma non derogabili a livello aziendale;
lottare per evitare un ulteriore impoverimento del Mezzogiorno.

Roma, novembre 2012

FISAC CGIL
Dipartimento Mezzogiorno

 

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