A che punto siamo con la parità di genere?

fonte: Repubblica.it

Il Rapporto Ombra dell’Eige (European Institute for Gender Equality), che valuta le scelte politiche e i processi messi in atto dalle autorità italiane. Povertà femminile, soprattutto nelle famiglie monoparentali, diritti alla salute, sessuali e riproduttivi, basso tasso di occupazione e violenza maschile sono solo alcuni dei temi analizzati nel documento. Con risultati sconfortanti

La realtà delle donne raccontata dalla società civile, cioè da chi le disuguaglianze le vive e le osserva ogni giorno. La fotografa il nuovo rapporto ombra sulle politiche di genere, che sottotitola “Cosa veramente è stato fatto in Italia”. Il documento, che ha valutato i processi messi in atto dalle autorità italiane tra il 2009 e il 2014, è stato presentato all’Istituto europeo per l’equità di genere il 24 ottobre, in occasione di un incontro organizzato a Roma presso la Casa internazionale delle Donne. Mostra un paese fermo dal 2008 dove, oltre al tetto di cristallo, c’è un pavimento che sprofonda – dice Simona Lanzoni, vicepresidente della Fondazione Pangea Onlus, curatrice del rapporto. Che mette l’accento sull’importanza di coinvolgere le donne nelle scelte che le riguardano.

Donne e povertà. Donne disoccupate: oltre 53%, contro il 36% degli uomini. Famiglie monoparentali (con persone non vedove): più di 1,5 milioni (47% in più rispetto a sette anni fa), e di queste quasi l’84% è costituito da mamme sole con figli. Sono loro le famiglie a maggior rischio di povertà. Neanche a dirlo, queste capofamiglia guadagnano meno degli uomini sebbene siano più istruite, e non hanno proprietà: i redditi annui sono di 27.700 euro per le donne e di 33.700 per gli uomini, e ad oggi non vi è alcuna misura che cerchi di superare il divario retributivo. In media – si legge nel rapporto – “il loro nucleo familiare conta su una ricchezza netta (immobili, attività reali e finanziarie) di 105 mila euro: 40 mila in meno rispetto ai nuclei con capofamiglia uomo”. Confrontando con i dati pre-crisi, la ricchezza è diminuita ben del 21% per le prime, ma solo dell’8,5% per i secondi. Una situazione che spiega anche perché le donne siano meno propense a chiedere prestiti: secondo un’indagine dell’Osservatorio SuperMoney, su 10 italiani che hanno chiesto finanziamenti a una banca tra gennaio e maggio 2014, 7 erano uomini.

Imprese femminili senza credito. Dati sconfortanti anche per quel che riguarda l’accesso al credito dell’imprenditoria femminile, che ha maggiori difficoltà a essere finanziata rispetto a quella a conduzione maschile, sebbene dimostri superiori livelli di affidabilità nei rientri. E oltre il danno, la beffa: “Uno degli ostacoli principali alla concessione di un finanziamento è proprio la richiesta, da parte degli istituti di credito, del coinvolgimento del coniuge per dare garanzie. In regime di separazione dei beni o di separazione coniugale, ciò è di fatto quasi impossibile, perché rende la moglie imprenditrice dipendente dalla volontà del marito”.

Vittime di violenza. I medici e i paramedici che lavorano nei Dea (Dipartimenti d’emergenza e accettazione) hanno una formazione non adeguata (e non omogenea sul territorio italiano) ad accogliere le donne vittime di violenza. Eppure sono loro che dovrebbero far emergere il fenomeno. Spesso, invece, la segnalazione e la corretta rilevazione dello stato della donna sta alla sensibilità del singolo operatore. “La mancata rilevazione della violenza, in assenza di una dichiarazione espressa della donna che accede al Dea, si traduce in referti scarni che non documentano adeguatamente le lesioni fisiche e lo stato psico-emotivo della vittima, o la presenza di figli minori, esposti direttamente o indirettamente alle violenze intra-familiari”, denuncia il rapporto. Dal 2011, rispetto ai Servizi sanitari e psicologici, non è stata adottata alcuna politica nazionale o di armonizzazione di politiche regionali di contrasto alla violenza di genere”. Non vi è alcun percorso di accesso preferenziale e specializzato nei Pronto Soccorso, né protocolli assistenziali specifici.

Violence Against Women: a che punto siamo con le leggi? Più forma che contenuti, mentre pregiudizi e lentezza burocratica impediscono troppo spesso alle donne sopravvissute alla violenza maschile di accedere alla giustizia. “Il primo Piano nazionale contro la violenza e lo stalking è stato adottato nel 2010 ed è scaduto a novembre 2013. Tale Piano era privo di azioni strutturali e non ha ricevuto applicazione, non è stato effettuato alcun monitoraggio da parte del Governo né è stata prevista la partecipazione di realtà di associazioni indipendenti esperte in VAW”, si legge nel rapporto. Che solleva critiche anche sulla legge 119/13 per il Piano d’azione straordinario contro la violenza sessuale e di genere: “Il carattere ‘straordinario’ non è coerente con la natura strutturale della questione della violenza maschile. È criticabile anche la distinzione tra violenza sessuale e violenza di genere, che tradisce l’assenza di consapevolezza sul fenomeno”.
Si denuncia la mancanza di una legge organica nazionale, della definizione esatta di Centro anti-violenza e degli standard minimi dei servizi di supporto per le vittime. Ancora: “I lavori avviati e non terminati della Task Force interministeriale contro la violenza alle donne durante il governo Letta non sono stati ripresi dal Governo Renzi”. E sebbene 20 regioni abbiano approvato leggi sulla violenza contro le donne, alcune di queste si sono limitate a promuovere l’istituzione di Centri antiviolenza, altre hanno esteso la possibilità d’intervento a enti esterni, che però non hanno una competenza specifica di genere. Infine, “quasi tutte le leggi regionali sono finanziate, ma in modo insufficiente”.

Matrimoni forzati. Quello dei matrimoni forzati in Italia è un fenomeno sommerso: “Le richieste di aiuto delle giovani donne che vengono costrette a sposarsi restano generalmente inascoltate a causa dell’assenza di politiche da parte delle istituzioni locali e nazionali”.

La scuola senza cultura di genere. Lo aveva chiesto anche l’Organizzazione mondiale della sanità: dovremmo garantire nel sistema scolastico, pubblico e privato, l’educazione sessuale in collaborazione con i consultori pubblici “come educazione alla conoscenza del proprio corpo, della sessualità come attività integralmente umana che riguarda il corpo, ma anche le emozioni e le relazioni, per i bambini e gli adolescenti”. Invece si fa ancora fatica. Come si fa fatica a parlare nelle scuole di differenza di genere, di accettazione e rispetto dei diversi orientamenti sessuali, contrastando gli stereotipi: “Al momento, nessun approccio programmatico e sistematico è stato attuato, ma solo interventi sporadici e a macchia di leopardo. Gli episodi sempre crescenti di bullismo e violenza contro le ragazze e tra le ragazze e di violenza sui social media ne sono il sintomo”.

L’equità passa per i dati. “Se il fenomeno della violenza di genere è venuto a galla in questi ultimi tempi è perché, per la prima volta, dei dati sono stati raccolti e analizzati. Sono i dati che rendono finalmente visibili le donne, che ci dicono quali politiche funzionano e quali no”, spiega Maura Misiti dell’Istituto di ricerche sulla popolazione e sulle politiche sociali del Cnr. “Negli ultimi anni l’Italia ha fatto un grande sforzo nella produzione di statistiche di genere ma, come accade spesso in Italia, tutta questa fatica non viene mai messa a sistema: non troveremo un portale che raccoglie tutti i dati italiani sulla Piattaforma d’azione di Pechino (il programma Onu sull’equità di genere, ndr.), che li organizza e li rende accessibili, in modo democratico, alla popolazione. E questo scatto in avanti, indispensabile, dipende dalla volontà politica che deve finanziare le ricerche in modo continuativo”.

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