Il progetto riguarderà in particolare i crediti erogati nei confronti di aziende del settore industriale e dei servizi, con l’esclusione sia del comparto finanziario che del real estate, che siano in fase di ristrutturazione e non ancora, quindi, da considerare del tutto “deteriorati”. Con l’intervento degli operatori specializzati nel settore, le parti in causa puntano a ridare fiato alle società selezionate, riportandole alla possibilità di restituire i denari presi a prestito dagli istituti e, in un orizzonte temporale maggiore, generare utili dall’attività caratteristica.
A&M è infatti uno dei principali operatori delle ristrutturazioni aziendali e della consulenza a società in serie difficoltà;
fondato nel 1983, il suo nome è legato nientemeno che alla ristrutturazione del fallimento più famoso della storia, quello di Lehman Brothers che ha scatenato la crisi finanziaria. Kkr, invece, è un fondo che gestisce quasi 15 miliardi di dollari di asset; in tempi recenti ha diversificato proprio nell’attività di gestione e recupero dei crediti in sofferenza, dall’operatività tradizionale di buyout. Nella nota congiunta si spiega che “la formazione e l’operatività della partnership sono ancora oggetto di discussione e verifica tra le parti. Ulteriori dettagli verranno resi noti con il progredire dell’operazione”.
La notizia era stata intercettata dal Financial Times, che nella serata di ieri ha anticipato l’uscita del comunicato. Il quotidiano della City nota che si tratta di un raro esempio di banche europee che fanno fronte comune con alcuni dei tanti private equity e hedge fund presenti nel sistema finanziario del Vecchio Continente in cerca di opportunità per accaparrarsi asset dagli istituti di credito “affamati di capitale”. Sullo sfondo, il Ft e altri osservatori lasciano intravvedere la suggestione della creazione di una “bad bank” italiana, cioè un soggetto che accolga i crediti in sofferenza delle banche tricolori.
Le parti in causa specificano però che non è ancora questo il caso di parlare di una “bad bank”, perché l’accordo di oggi accoglie crediti non ancora deteriorati, per di più senza l’intenzione di dismetterli, ma per riportare alla redditività le aziende che hanno richiesto i finanziamenti; inoltre la taglia dei pacchetti dovrebbe essere tutto sommato limitata. Oltre ai dettagli tecnici sulla costituzione del veicolo, a Intesa e Unicredit spetta la scelta su quale parte del proprio portafoglio di crediti in sofferenza conferire e in che misura contribuire con risorse fresche di tasca propria.
Entrambe, in occasione della presentazione dei loro conti 2013 e dei piani industriali per i prossimi anni, hanno messo nero su bianco la volontà di isolare nei propri libri contabili i crediti difficili, dando vita a delle forme di “bad bank interne”. Unicredit ha isolato 87 miliardi di euro di prestiti in sofferenza, annunciando la volontà di dismetterne 55 miliardi entro la fine del 2018. Intesa, a stretto giro, ha creato la sua banca cattiva per accogliere 46 miliardi di asset (per la maggior parte crediti, anche se non manca qualche partecipazione non più strategica) con l’intenzione di dimezzarli nel giro dei prossimi quattro anni.
Nel complesso, le sole sofferenze lorde del sistema bancario italiano, secondo le ultime stime dell’Abi, hanno raggiunto la cifra record di 162 miliardi. Ultimamente le pulizie effettuate dagli istituti di credito e alcune cessioni di pacchetti di crediti hanno fatto scendere il dato delle sofferenze nette, cioè l’ammontare dei crediti difficili meno le coperture stanziate dalle banche: a febbraio erano 78 miliardi, con un rapporto del 4,27% sul totale degli impieghi.