Pubblichiamo la seconda parte del documento, curato da Alberto Massaia e presentato durante un incontro svoltosi a Torino lo scorso 15 maggio. Le prossime tre parti saranno pubblicate ogni lunedì ed al termine sarà disponibile anche una versione interattiva per iPad.
Nella realtà pratica, bisogna ammettere che l’impugnazione in sede giudiziaria di una sanzione disciplinare diversa dal licenziamento, difficilmente è percorribile. Le spese legali da sostenere in un processo sono tali da rendere non conveniente un’azione giudiziaria. Peraltro, qualora vi sia il timore che l’azienda intenda portare avanti una sequenza di sanzioni disciplinari via via più gravi per effetto della recidiva, sino al licenziamento, si può valutare se inviare, dopo l’irrogazione delle sanzione, una lettera con cui il lavoratore contesta la sanzione e si riserva di adire le vie legali. Ma questo al solo scopo di evitare, in caso di successiva procedura di licenziamento disciplinare, che il silenzio dopo le precedenti sanzioni sia interpretato come tacita ammissione dei fatti contestati. E’opportuno fare qualche precisazione sull’azione sindacale, che s’inserisce in particolare al momento della stesura delle controdeduzioni scritte e dell’eventuale colloquio. E’ impossibile fare delle generalizzazioni, trattandosi di un argomento su cui hanno grande rilevanze le diverse prassi aziendali. In ogni caso ed in via del tutto preliminare, è necessario che il rapporto fra il sindacalista e l’iscritto sia improntato alla massima trasparenza reciproca: purtroppo, vi sono casi in cui il lavoratore fornisce al sindacalista una versione non veritiera dei fatti e ciò – come in ogni rapporto professionale – comporta successivi errori di valutazione. A livello strettamente pratico, sarà opportuno che la lettera di controdeduzione sia redatta in maniera lineare e sintetica, senza polemiche; non serve tentare di smentire fatti oggettivi ed accertati, mentre potrà essere utile sottolineare problematiche che riguardano lacune aziendali, quali carichi di lavoro, carenze nella formazione, carenze nella comunicazione di nuove normative, carenze procedurali ecc. Nella lettera sarà opportuno evitare di trattare questioni riguardanti difficoltà di carattere personale e così pure coinvolgere altri colleghi di lavoro; al più tali aspetti potranno essere accennati in sede di colloquio, anche se una chiamata di corresponsabilità con altri lavoratori è sempre da valutare con la massima cautela. La normativa procedurale sui licenziamenti individuali, contenuta nella legge n. 604/1966, è alquanto schematica. Emerge comunque la necessità della forma scritta e l’obbligo della motivazione . Lo “squilibrio” fra le norme a tutela del lavoratore contenute nella legge n. 604/1966 – alla quale va comunque riconosciuto il merito di essere stata la prima legge italiana che introduceva alcune tutele in materia di licenziamenti – e nella più efficace legge n. 300/1970, è stato comunque ripianato dalla Corte Costituzionale, con le due sentenze n. 204/1982 e n. 427/1989: con tali pronunce interpretative, la Consulta estese ai licenziamenti disciplinari le tutele procedurali previste dallo “Statuto dei Lavoratori” per le sanzioni disciplinari non espulsive, qualunque sia il numero dei dipendenti dell’azienda. La legge n. 604/1966 ha altresì tipizzato tre distinte forme di licenziamento. Una prima forma è quella del licenziamento per giusta causa secondo le previsioni di cui all’art. 2119 codice civile, vale a dire “qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria del rapporto” di lavoro. Una seconda forma è quella del licenziamento per giustificato motivo soggettivo, determinato da “un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro”. Una terza ed ultima ipotesi è quella del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, che esula comunque dalla presente trattazione, in quanto determinato da “ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”. In ordine ai licenziamenti è importante ricordare come l’art.32 della legge n. 183/2010 – il noto “collegato lavoro” – ha introdotto un’importante modifica sui termini. La legge n. 604/1966 prevedeva già all’art.6 un termine di 60 giorni entro cui il lavoratore poteva impugnare il licenziamento. La citata legge n. 183/2010, invece, ha previsto un ulteriore termine di 270 giorni – dopo quello di 60 – per impugnare il licenziamento in tribunale oppure in sede di conciliazione e arbitrato. E’ da precisare come esista una qualche incertezza interpretativa sul fatto che il termine di 270 giorni si sommi a quello di 60 (per un totale di 330 giorni) oppure se il termine di 270 giorni sia comprensivo anche di quello di 60. Cercando di chiarire le diverse tipologie previste dalla legge n. 604/1966, il licenziamento per giusta causa trova la sua ratio in un’inadempienza del lavoratore così grave da far venire meno il vincolo fiduciario alla base del rapporto di lavoro e tale da giustificare quindi l’immediata risoluzione del rapporto di lavoro stesso. La differenza con il giustificato motivo soggettivo è in realtà alquanto sfumata, correlata alla maggiore o minore gravità dell’inadempienza. E’ comunque da evidenziare come la principale conseguenza pratica della distinzione fra le due tipologie sia rappresentata dalla spettanza del preavviso nel solo caso di licenziamento per giustificato motivo. Cercando di chiarire ulteriormente il citato concetto di inadempienza, pur con la necessaria approssimazione, si può sostenere che il licenziamento per giustificato motivo soggettivo sia per lo più applicato a fronte di irregolarità nelle giustificazioni di assenze, dell’impossibilità per il dipendente a riprendere il servizio per le cause più diverse, di recidive in irregolarità “minori”. Invece, l’ampia casistica dei comportamenti dolosi di malversazione, riconducibili alle diverse fattispecie di reati contro il patrimonio previsti dal codice penale – furto, appropriazione indebita, truffa, eccetera – è usualmente sanzionata con il licenziamento per giusta causa, qualunque sia la modalità pratica o l’ammontare più o meno elevato delle somme indebitamente distratte. E’ altresì necessario chiarire almeno per sommi capi i concetti di dolo e colpa, che come abbiamo visto sono richiamati dall’art. 40 del CCNL del credito come punti di riferimento per quantificare la gravità delle sanzioni disciplinari ed appaiono rilevanti ai fini della distinzione fra sanzioni non espulsive e licenziamento. Senza esagerate sottigliezze giuridiche, il dolo consiste nella coscienza e volontà di causare l’evento dannoso; invece la colpa consiste in un comportamento non deliberato ma causato da negligenza, impudenza, imperizia o per inosservanza di leggi o regolamenti. La colpa è quindi valutata a seconda del grado di diligenza richiesta al soggetto che deve adempiere l’obbligazione. Quindi, si avrà responsabilità per colpa grave quando non si è rispettata la diligenza minima; si avrà responsabilità per colpa lieve o lievissima quando non si è rispettato un livello di diligenza più elevato. Nell’attività bancaria, è inutile evidenziare come sia richiesto un grado di diligenza particolarmente elevato e quindi la valutazione della colpa è molto rigorosa. In ordine alla congruità fra l’inadempienza e la sanzione del licenziamento piuttosto che di altre sanzioni non espulsive, la giurisprudenza di Cassazione è comunque consolidata su alcuni punti fermi. Innanzitutto, la Suprema Corte ritiene che il giudice di merito debba necessariamente procedere alla valutazione della proporzione fra i fatti contestati e la sanzione; tale valutazione va condotta in riferimento a tutte le circostanze del caso concreto, tenendo conto del fatto in sé, delle intenzioni soggettive del dipendente, della posizione gerarchica del medesimo e del conseguente grado di affidamento richiesto dalla mansioni esercitate; tale valutazione spetta unicamente ai giudici di merito e se sorretta da congrua motivazione è insindacabile dalla Corte di Cassazione . Vale la pena fare una precisazione in ordine all’erogazione del credito ed ai limiti d’importo previsti nelle deleghe di poteri attribuite ai direttore delle filiali ed alle strutture sovraordinate. Per quanto ovvio, in presenza di irregolarità nell’erogazione dei fidi, si può identificare una maggiore gravità di responsabile disciplinare in caso di operatività in supero a quanto fissato nella delega; anzi l’erogazione di credito in supero alle facoltà delegate – a prescindere dall’eventuale danno – s può configurare come un’irregolarità di per sé. Inoltre, per la Banca sarebbe teoricamente possibile attivare una responsabilità patrimoniale per l’operatività in supero a tali limiti, ai sensi dell’art. 1218 codice civile, come vedremo nelle pagine successive. Questo per sommi capi, è quanto attiene agli aspetti procedurali delle sanzioni disciplinari. Passiamo ora agli aspetti sostanziali: i CCNL sia del credito che delle assicurazioni non prevede una casistica di comportamenti colpiti dalle rispettive sanzioni. Un’enunciazione dei doveri in capo ai dipendenti è contenuta nell’art. 34 del CCNL del credito, peraltro in forma del tutto generica e poco significativa. L’art. 34 si limita infatti a stabilire che “Il personale, nell’esplicazione della propria attività di lavoro, deve tenere una condotta costantemente informata ai principi di disciplina, dignità, moralità. Il personale ha il dovere di dare all’azienda, nell’esplicazione della propria attività di lavoro, una collaborazione attiva ed intensa, secondo le direttive dell’azienda stessa e di osservare il segreto d’ufficio.” E’ una formulazione abbastanza simile a quella degli artt. 2104 e 2105 codice civile , essi pure alquanto generici e che per di più risentono dei principi dell’ordinamento corporativo, in vigore nel 1942 quando il codice fu promulgato ed ovviamente soppresso con la caduta del fascismo. Ancora più limitate sono le indicazioni contenute nei CCNL delle assicurazioni in tema di doveri dei lavoratori. Così, gli artt. 22, 23, 24 del CCNL delle assicurazioni (ANIA) fissano: il divieto di entrare o trattenersi nel locali aziendali al di fuori dell’orario di lavoro (salvo autorizzazione); l’obbligo di segnalare la assenze per malattia o infortunio; l’obbligo (di norma) di risiedere nella località o zona di lavoro e di segnalare il proprio indirizzo. L’art. 26 del CCNL delle assicurazioni (agenzie) invece, stabilisce l’obbligo per il lavoratore di rispettare l’orario, di dare una collaborazione attiva secondo le direttive dei responsabili, di conservare il segreto d’ufficio e non svolgere attività in concorrenza. Possono quindi assumere particolare rilevanza ai fini dell’identificazione dei comportamenti rilevanti sotto il profilo disciplinare, non tanto i contratti integrativi aziendali, quanto piuttosto le norme interne – diffuse con le modalità più diverse, quali circolari o fascicoli d’istruzione, lettere, ordini di servizio, in forma sia cartacea che elettronica – che disciplinano le diverse attività di raccolta del risparmio ed erogazione del credito da parte della Banca e le attività assicurative nei diversi rami. Al riguardo, è da osservare come l’attuale complessità dell’attività bancaria ed altresì la continua mutevolezza della stessa, per effetto non solo della caotica evoluzione di mercato ma anche delle norme introdotte da leggi o da disposizioni di natura regolamentare (statali, o della Banca d’Italia o dell’ISVAP o di altri Enti) possa comportare una reale difficoltà di aggiornamento da parte del dipendente. Tale circostanza, se imputabile al datore di lavoro, può essere eccepita nel corso del procedimento disciplinare. La concreta applicazione delle sanzioni, valutando la gradazione delle stesse, appare lasciata in gran parte alla discrezionalità del datore di lavoro, tenendo conto della linea interpretativa giurisprudenziale prima descritta. Argomentando dal principio di proporzionalità di cui all’art. 2106 codice civile, art. 40 CCNL del credito e art. 26 CCNL delle assicurazioni (ANIA), in linea di massima, si può sostenere che la sanzione del licenziamento presuppone un comportamento doloso in capo al lavoratore – come già evidenziato nelle pagine precedenti – mentre i comportamenti colposi derivanti da negligenza ed imperizia dovrebbero condurre a sanzioni non espulsive. Ciò per quanto attiene ai fatti imputabili al dipendenti e correlati all’attività lavorativa, alla quale facciamo specifico riferimento nella presente trattazione. Nell’occasione, evidenziamo come la giurisprudenza ritenga che anche i fatti estranei al rapporto di lavoro possano assumere valenza disciplinare sino al licenziamento qualora siano tali da far venire meno il vincolo fiduciario : ciò è di tutta evidenza nei casi che costituiscono reato, delle più diverse specie, siano essi reati contro la persona piuttosto che contro il patrimonio, per limitarsi ai casi più evidenti.