fonte:Dal blog La 27 Ora (Corriere della Sera) Una sintesi in dieci punti per rendere i mass media parte attiva di un cambiamento in Italia. Contro gli stereotipi di genere, maschili e femminili Violenza sulle donne e ruolo dei media Ecco il testo in 10 punti che la27ora ha proposto come contributo all’incontro in Senato su “Convenzione di Istanbul e Media”. Al convegno hanno partecipato Pietro Grasso, presidente del Senato, Laura Boldrini, presidente della Camera, Anna Maria Tarantola, presidente Rai, Mario Calabresi, direttore de La Stampa, Massimo Giannini, vice direttore de La Repubblica, Barbara Stefanelli, vice direttore del Corriere della Sera, Sarah Varetto, direttore SKY TG24, Luisa Betti, Articolo21 e Giulia. L’incontro è stato ideato e introdotto da Valeria Fedeli, vice presidente del Senato. Con le conclusioni di Luigi Zanda, presidente gruppo Pd al Senato Il 9 marzo 2011 è nato il blog La27esima ora per celebrare non una giornate della donna ma 365 giornate aperte alle donne: alle loro voci e alle loro idee. Attorno al blog del Corriere della Sera si è creata una libera comunità di giornaliste e giornalisti, interni ed esterni alla testata, di collaboratrici e collaboratori, di esperti, lettrici e lettori. Abbiamo parlato e parliamo di tutto: di lavoro, talenti, famiglia, relazioni. Per raccontare come le donne stiano cambiando in Italia. E abbiamo cercato di farlo con un linguaggio che prova a coinvolgere e includere anche chi si sente lontano da ogni forma di militanza. Dal maggio 2012, da un’inchiesta in nove puntate pubblicata sul quotidiano e poi diventata un libro, abbiamo scritto e discusso di femminicidio ogni giorno. Ancora sulla carta e soprattutto nel blog. Ora abbiamo raccolto le idee. Cerchiamo qui di fare una sintesi per punti di quanto ci sembra possa essere utile a rendere i mass media parte attiva di un cambiamento in Italia. Un cambiamento per il quale la Convenzione di Istanbul ha disegnato una cornice chiara, per noi la migliore tracciata sinora, alla quale vogliamo ispirarci nel nostro lavoro. 1. Evitiamo di riferirci alle donne come “soggetti deboli”, vittime predestinate, e agli uomini come “soggetti violenti”, in preda a ineluttabili meccanismi mostruosi. Le donne, lo sappiamo, vengono rese vulnerabili – in determinate condizioni – dalla violenza che gli uomini agiscono – in determinate condizioni. Insistere su deboli e violenti in una società che ancora tende a crescere le bambine come dolci e gentili e i bambini come forti e aggressivi conferma uno dei pre-giudizi che è alla base della non pAritá e alla radice della violenza. Conferma alla donna che sta subendo violenza lo stereotipo che lei è debole e non avrá mai la forza per uscire dalla situazione di cui è protagonista con il suo compagno. È importante raccontare che non tutti gli uomini sono così fragili da non reggere una donna che si allontana o che cerca la propria individualità; non tutte le donne sono così fragili da subire sempre e comunque quello che resta di una promessa d’amore. Una volta, a un post dedicato a una storia di violenza, arrivò il commento di in lettore che ci invitava a desistere, a rassegnarci. La violenza degli uomini sulle donne, scrisse, è come la grandine: ogni tanto arriva, si abbatte sulle campagne, fa parte di cicli stagionali che esistono e persistono da sempre e regolano la vita della terra. Arrendetevi, ci esortava. È contro questa visione antica che possiamo raccontare le storie, una per una, scardinando vecchi codici di genere. 2. Il secondo punto sembra banale, eppure forse è il piu difficile nella quotidianità del nostro lavoro. Evitare nei titoli delle storie, dei fatti di cronaca, di ricorrere alle solite frasi: raptus di gelosia, omicidio passionale, l’ha uccisa ma l’amava moltissimo. Anzi: perché l’amava moltissimo. E ancora: nessuno avrebbe potuto amarla di più. Sono – appunto – frasi fatte e rifatte da una cultura che pesa sulla libertà delle donne e degli uomini; sono luoghi comuni nei quali ci siamo infilati per inerzia con il rischio di restarne prigionieri. Assieme a questa rinuncia a parole sbagliate, dai testi ai titoli, evitiamo di indulgere lungo il fronte morboso delle storie stesse. Queste storie vanno racontate, ma è nostro compito trovare parole nuove. E mettiamo magari subito al bando l’ipocrisia del troppo amore. Ripetiamoci che questo non è amore. 3. Proviamo a porre la stessa attenzione nell’iconografia delle storie che pubblichiamo. Tendiamo a proporre ai lettori solo le facce, i corpi, i sorrisi delle donne ferite o uccise. Le chiamiamo con disinvoltura Angela, Maria, Serena. Rubiamo le loro immagini da Fb. Ma dove sono gli uomini che commettono quei reati? Spesso sono solo ombre, e ombre restano, in quanto tali indecifrabili. E così non facciamo alcun passo avanti nel tentativo di decifrare il male. Anche quegli uomini che sono stati protagonisti di atti violenti hanno un percorso che è utile chiarire: non giustificare, ma capire sì. La tentazione che ci fa riempire giornali, siti dei giornali, tg, di facce di donne assassinate o pestate scivola anche nelle pubblicità progresso. Anche qui volti tumefatti di donne, mentre gli uomini attori della violenza restano eternamente invisibili. 4. Ricostruiamo le storie di violenza: non si può imporre a ogni singolo articolo o a ogni singolo titolo un intento educativo, ma lo sforzo di dire come è andata può essere utile a trasmettere nel tempo un messaggio nuovo. L’osservatorio della Casa delle Donne di Bologna ha contato che questo sforzo di raccontare ciò che ha preceduto l’atto finale viene compiuto nel 40 per cento dei casi. È più di prima, ma non è abbastanza. Se il lavoro del cronista è quello della ricerca delle storie, la storia non può partire e fermarsi all’ultimo atto. Raccontare il percorso, indicava già nel 2008 la Federazione internazionale dei giornalisti, amplifica la comprensione del pubblico contribuendo a sconfiggere l’idea che la violenza contro le donne sia una tragedia inesplicabile e irrisolvibile. Ricostruire senza cliché, senza banalitá le storie e i contesti in cui avvengono significa mostrare in diretta quanto la violenza sia trasversale: alle generazioni, ai luoghi, a fasce sociali diverse per cultura o censo. Significa fare buon giornalismo, non seguire il faile racconto di chi vorrebbe spingere lontano da sé o dal proprio condominio la violenza domestica. 5. Non stiamo parlando di un’emergenza, di un’onda improvvisa che si è alzata e che – affrontata con piglio da emergenza – si abbasserà. La violenza degli uomini sulle donne è strutturale: è una realtà che permane nei codici espressi e nell’oscurità dei corpi. Lo dimostra l’osservazione non confutabile che il numero totale degli omicidi commessi in Italia scende, mentre resta fissa la quota di quelli contro le donne. Inutile combattere sui decimali per poter negare o almeno minimizzare questa questone rispetto ad altre questioni sociali di cui – è il discorso di molti nelle ultime settimane – si parla ingiustamente meno. E poi quello che rende strutturale la violenza è la natura stesse delle relazioni violente, anche quando non si concludono con un femminicidio. Noi vorremmo davvero che venisse sospesa la battaglia dei numeri che tanto sta facendo dibattere soprattutto negli ultimi giorni. Stiamo sprecando tempo ed energie che potremmo dedicare alle persone. Per questo un’evoluzione positiva dell’ultimo anno è l’impegno preso da Viminale e ISTAT affinché ci siano in Italia finalmente dati precisi, aggiornati, suddivisi e analizzabili su violenze domestiche, stupri, stalking, morti, denunce, destino delle denunce stesse. 6. Quello che può fare la differenza, nella cronaca dei fatti che si impongono per tragicità, è difendere uno spazio per le storie che invece non finiscono male. Offrire le testimonianze dirette di quante sono riuscite, come si dice, a “venirne fuori”. Fuori dalle case dove vengono minacciate, picchiate, oppresse anche solo psicologicamente. Proporre modelli positivi – donne che si sono chiuse una porta alle spalle e sono state sostenute in questo cammino da forze dell’ordine, magistratura, comunità di accoglienza – aiuta la diffusione di una consapevolezza che oggi in Italia è ancora debole. E sostiene le donne che stanno vivendo una situazione di violenza a non sentirsi uniche e sbagliate. Una storia che si rivela sbagliata può essere chiusa ed esiste un sistema di sicurezza al quale si ha il diritto di ricorrere. Quando una donna viene uccisa nonostante ripetute denunce non è perché “non c’era nulla da fare”, ma perché c’è stata una falla in quel sistema e su quella falla si deve lavorare affinché non si ripeta. 7. Il ruolo dei media è anche quello di raccontare belle storie di donne belle secondo un codice di bellezza liberato da un immaginario soffocante e ormai insopportabile. Non rimpiangeremo qui Miss Italia, ma non basta develinizzare i palinsesti di televisioni-giornali-siti di giornali. Il lavoro culturale più sensibile e utile a un cambiamento profondo nel tempo è quello che racconta le donne reali: quelle che lavorano nelle imprese o che fondano una propria impresa, che avanzano nella ricerca o nelle istituzioni; quelle che scelgono di dedicarsi alla cura della famiglia senza sentirsi obbligate a questo ruolo da un’architrave culturale che incombe sulle loro teste; quelle che cambiano idea su una scelta precedente senza temere le conseguenze del passo indietro o di lato o in avanti che sia. Donne che crescono in consapevolezza e libertà accanto agli uomini in un incrocio di diritti/doveri finalmente pari. La diversitá, raccontata e sostenuta come fattore positivo di cambiamento, non potrà che aiutare l’Italia a muoversi: a uscire da un sistema che appare bloccato ormai da decenni. Quasi tutti gli indici che misurano i divari tra i generi hanno fatto registrare miglioramenti impercettibili dagli anni Ottanta. 8. Chi lavora stabilmente sui casi di violenza spiega come sia indiscutibile che gli uomini che “condividono la subcultura della superiorità maschile” siano più inclini a diventare “partner abusanti“. Così come è dimostrato dai fatti che “le donne portate a concepire per sé un ruolo subalterno” nella coppia/famiglia siano più inclini a subirla e non denuncia. L’85 per cento degli uomini che agiscono violenza l’hanno vista perpetrata dai propri padri o familiari. Non ci resta – come mass media – che contribuire a un sovvertimento della subcultura generale della diseguaglianza secondo cui la mascolinità si esprime attraverso il dominio e il controllo delle donne. Proviamo a cambiare racconto: raccontiamo che la violenza è fragilità. Che la prova di forza più grande è il rispetto della libertà degli altri, rispetto per il grande cambiamento di ruolo e pensiero di cui le donne sono protagoniste. In Francia, come sappiamo, il governo ha avviato quest’anno un programma sperimentale che cerca di scardinare ogni pregiudizio e previsione di genere nelle scuole pubbliche. Può essere un programma di Stato, ma può essere un laboratorio di idee al quale i media devono partecipare in primissima linea. Sovvertire i codici lessicali e le rappresentazioni tradizionali rosa-azzurre, che poi vanno a definire le aspettative e a determinare i desideri. 9. In tutto ciò gli uomini devono trovare spazio. Questo vale anche nello scambio che si svolge attorno ai giornali o alle tv, nei luoghi più tradizionali o via social media. Non dobbiamo cedere alla contrapposizione maschile-femminile. Non dobbiamo lasciare, come spesso è avvenuto o ancora avviene, che la questione della violenza sulle donne resti nella cornice pur importante e irrinunciabile di una conversazione tra donne. Gli uomini che prendono la parola su questioni di genere spesso temono di dire le cose sbagliate, di usare parole imprecise, infine pensano sia meglio non esporsi su un fronte che non dá loro appigli. Invece la voce di un uomo – un giornalista, nel nostro caso, che si sia sempre occupato d’altro – ha un effetto amplificato sul pubblico più vasto. Allo stesso tempo è fondamentale, come in parte abbiamo accennato in un punto precedente, raccontare gli uomini che sono autori di violenza. Chi sono, come sono stati cresciuti, come parlano e pensano, dove nascono il rancore e la rabbia e l’incapacità di sopportare un “no” o un “basta”. In Italia si stanno radicando i primi centri di ascolto per gli uomini che si sono dimostrati violenti: la loro esperienza si può rivelare utilissima per smontare il meccanismo che sta sotto un’idea sbagliata di virilità. Spesso, quando si raccolgono testimonianze di chi conosceva l’omicida, si sente ripetere: una persona impeccabile, una così brava persona. Un uomo a modo che ha perso la testa. Forse è l’occasione di scogliere i fili mal intrecciati: quell’essere impeccabili scherma la possibilità di comprendere la propria vulnerabilità e dunque chiedere aiuto prima di precipitare. 10. L’ultimo punto è chiedersi, come protagonisti della comunicazione, perché il fattore culturale che definisce i rapporti tra uomini e donne si stia rivelando così resistente a un’evoluzione liberatrice di energie tanto per le donne quanto per gli uomini. Virginia Woolf parlava di un potere ipnotico. L’ipnosi sta probabilmente nell’intreccio di educazione, comunicazione, linguaggio, scuola, saperi diversi, conoscenza che abbiamo di noi stessi e del mondo. Scrive Lea Melandri che le donne restano probabilmente legate a quello che chiama “il sogno d’amore”, il richiamo a un focolare che ne faceva le protagoniste – pur nascoste – della casa e del rapporto con i figli. E che gli uomini restano prigionieri dell’idea di rappresentare l’umano perfetto, l’universale, in un certo senso “neutro” e non frutto di un genere che ha avuto privilegi sì ma anche mutilazioni profonde della propria libertà e del proprio piacere nella vita. Come parlare di tutto questo senza scivolare in semplificazioni o denunce spettacolari? Il nostro lavoro, lo abbiamo detto, è raccontare le storie e dare voce alle persone che cambiano. E abbiamo bisogno come giornalisti che raccontano – e come società che attraverso i media si interroga – di parole nuove. Per arrivare a questo dobbiamo mettere in conto che nella formazione dei giornalisti stessi vada compresa una riflessione rinnovata e approfondita delle differenze tra i generi, di come siano cambiate le donne e cambiati – o non cambiati in parallelo – gli uomini, in Italia e non solo. La libertá di pensiero e di giudizio è uno strumento base del giornalismo. Forse dovremmo chiederci perché sia ancora così difficile usarlo quando parliamo di donne e uomini. Molto sta cambiando, ma siamo – noi per primi – in una terra di passaggio. Interrogarsi è un acceleratore.
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