Con l’elezione del gruppo dirigente, sostanzialmente per acclamazione, si è conclusa a Los Angeles (California) la 27^ Convention dell’AFL-CIO. Richard Trumka (padre polacco e madre italiana) ed Elizabeth Shuler sono stati confermati, rispettivamente, presidente e segretario-tesoriere, mentre il 45enne immigrato di origine etiope, giunto ragazzino in Usa come rifugiato politico, Tefere Gebre, è il nuovo vice presidente esecutivo, in sostituzione di Arlene Holt Baker, giunta alla pensione. Su lista bloccata sono stati eletti i 55 vicepresidenti, che compongono il comitato esecutivo, e rappresentano le principali Federazioni nazionali e i Comitati Statali dell’AFL-CIO. Nessuna tensione, dunque, nell’elezione del gruppo dirigente e grande enfasi sull’unità, sul necessario rinnovamento, sull’apertura alle “nuove” figure sociali, sulle alleanze da costruire con le comunità locali e il mondo associativo, molto del quale per la prima volta invitato e presente al congresso.
Del resto,fin dalla sua apertura, la “cifra” del congresso è stata proprio quella di spingere su forme nuove di mobilitazione e di sindacalizzazione per invertire il lunghissimo trend discendente che ha portato ad una densità sindacale complessiva del solo 11%, ancor più esigua nel settore privato, dove solo il 6,6% dei lavoratori sono sindacalizzati.
Lo stesso Barack Obama, il cui previsto intervento si è tramutato in un video messaggio di 3 minuti e mezzo (le vicende siriane lo hanno trattenuto a Washington…), ha insistito sull’importanza, per i lavoratori e le loro famiglie, di essere sindacalizzati e ha ringraziato l’AFL-CIO per tutto il lavoro che ha fatto e sta facendo non solo in rappresentanza dei suoi iscritti, ma di tutti i lavoratori. Peccato che il Presidente democratico non abbia speso una parola sulle promesse di cambiamento di quelle norme sul lavoro che rendono più difficile la sindacalizzazione e danno alle imprese la possibilità di proseguire nelle peggiori pratiche antisindacali. Nel suo video messaggio, Obama ha anche difeso e rilanciato sulla sua riforma sanitaria, “per dare ad ogni americano la copertura contro le malattie e gli infortuni”, e sulla necessità di riformare le norme sull’immigrazione.
Altro tema caro e fortemente presente nel congresso dell’AFL-CIO che, con diverse risoluzioni approvate e numerose “sessioni d’azione”, ha insistito nel proiettare tutta l’organizzazione al sostegno della nuova legge sull’immigrazione e sulla cittadinanza per 11 milioni di immigrati, alla campagna politica e all’azione di lobby verso i membri del congresso, alla organizzazione degli immigrati, anche in forme nuove e in alleanza con associazioni di immigrati, dei diritti civili, di attivisti a difesa dei diritti dei lavoratori.
La crisi, la caduta dell’occupazione e dei salari, l’aumento delle diseguaglianze e, per battere tutto ciò, la conquista di una “prosperità condivisa” sono stati l’altro asse centrale del congresso – del resto, l’altra faccia della medaglia della caduta della sindacalizzazione.
E uno dei principali protagonisti è stato il premio Nobel per l’economia, Joseph Stiglitz, accolto con grande calore e partecipazione dal congresso. Prima del suo discorso in plenaria, Stiglitz aveva tenuto una prolusione alla cena delle delegazioni straniere, e, alle sette del mattino, aveva partecipato ad una tavola rotonda con altri accademici, Jonh Evans, del TUAC, e Bernadette Segol, segretaria generale della CES.
Come noto Stiglitz è molto critico sulla maniera in cui gli economisti e, ancor di più, i decisori politici stanno affrontando la crisi economica globale. Per quanto riguarda gli Usa, poi, Stiglitz ne fa l’esempio di come le scelte politiche a favore dell’1% più ricco stiano esacerbando le diseguaglianze che, oltre ad essere inaccettabili socialmente e contrarie al “sogno americano”, hanno conseguenze disastrose sull’economia, che, anche in America, è ben lontana dalla ripresa, soprattutto se si guarda ai tassi di occupazione e disoccupazione. Se la crisi è stata affrontata – non solo in Europa, ma anche negli Usa, dice Stiglitz – con l’austerità (se non fosse così, gli Usa avrebbero due milioni di pubblici dipendenti in più, non 500.000 in meno, ad esempio), questa ha ingigantito le diseguaglianze: tra il 2009 e il 2012 il 95% della ricchezza creata è andata all’1% a più alto reddito; la borsa è salita del 98%; i profitti lordi delle imprese del 50, 3%; il reddito reale dell’1% più ricco del 31,4% contro il misero 0,40% del 99% della popolazione; i salari reali orari sono saliti dell’1,90%; il numero di lavoratori dello 0,05%. Ma, secondo Stiglitz, le diseguaglianze e il progressivo impoverimento dei lavoratori e della classe media sono iniziati quarant’anni fa, quando la curva della produttività del lavoro e quella dei salari si sono irrimediabilmente e in maniera sempre più accentuata scisse, distribuendo tutta la maggior ricchezza verso i profitti e le rendite. La “buona notizia” – dice Stiglitz – è con non c’è niente di “naturale”, niente di predeterminano dalla scienza economica o dai mercati. Si tratta di decisioni politiche e, come tali, possono e debbono essere cambiate, per redistribuire i redditi, rimettere in moto la mobilità sociale, generare nuova domanda, salari e posti di lavoro migliori. E in questo fondamentale è il ruolo del sindacato e delle sue alleanze sociali.
La sintonia con i dirigenti dell’AFL-CIO è totale, così come è evidente a tutti i delegati – appassionati, colorati, rumorosi, nonostante l’evidente lunga militanza sindacale, in un’assemblea ancora un po’ troppo “matura” e a predominanza bianca – la difficoltà, ma anche l’altezza della sfida: aprirsi, cambiare, lottare per invertire il declino. Appunto quel “sogna, innova, agisci” che campeggia negli striscioni e nella magliette colorate.