Se si misura il gap tra Nord e Sud in termini di povertà, dice Susanna Camusso, segretario generale della Cgil, si comprenderanno meglio le origini del dualismo italiano che troppo spesso si dimenticano. «Riproporre perciò la centralità di questo tema – spiega – nella stagione della crisi e dell’accentuarsi delle diseguaglianze sociali, è un’esigenza alla quale il più grande sindacato italiano non può sottrarsi». Ne parlerà proprio lei stamane a Napoli in un incontro al Museo diocesano che vede in prima fila anche l’ arcidiocesi di Napoli.
La Chiesa interlocutrice indispensabile a Napoli per l’emergenza lavoro? «Assolutamente sì. Il cardinale Sepe si è sempre impegnato a fondo. Con lui e con la Chiesa napoletana c’è da tempo un rapporto di collaborazione che peraltro conferma l’attenzione che tutta la Conferenza episcopale italiana ha dato e sta dando al problema lavoro. Mi pare che non sia soltanto un’opinione ma anche una critica al sistema e al modo con il quale quest’ultimo affronta 1′ emergenza».
Povertà e Mezzogiorno: non le sembra che, dati alla mano, questa parte del Paese sia già finita nel baratro? «Non solo per attitudine personale ma anche perché rappresento un’organizzazione di lavoratori da sempre impegnata sul cambiamento, non posso nemmeno pensare che non ci sia più nulla da fare. Mi rifiuto di immaginare che cambiare non sia più possibile al Sud come nel resto del Paese. Purtroppo la verità è che c’è ancora molta, troppa sottovalutazione della drammaticità della situazione. C’è soprattutto al Sud una diffusa convinzione dell’assenza di speranza e di futuro».
La crisi specie tra i giovani ha spalancato le porte alla rassegnazione. «La cosa che più colpisce sono i racconti delle famiglie che rinunciano a far studiare i figli perché mancano i soldi o che li mandano all’estero a cercare lavoro. Da troppo tempo non si danno risposte ai giovani e alle donne del Mezzogiorno ».
Il presidente della Biennale, Baratta, ha sostenuto in un’intervista al Mattino che la mancanza di industrie al Sud ha generato l’attuale deriva. Che ne pensa? «Che in parte è vero, se si considera ad esempio un’industria come quella legata al turismo, e non più al trasferimento di produzioni al Sud scollegate dal territorio. Vede, noi siamo stati epigoni di un thatcherismo che ha prodotto risultati nefasti. Abbiamo passato troppi anni a discutere di “piccolo è bello”, di un Paese che doveva proiettarsi sul terziario, che l’industria doveva arretrare. Abbiamo inseguito modelli senza prevedere le conseguenze di certe scelte e lasciato agli stranieri settori come quello delle trasformazioni agricole che proprio al Sud avevano invece sicure garanzie di redditività. la stessa ragione, in fondo, per cui abbiamo trasferito gli investimenti dalla produzione alla finanza e all’immobiliare ».
Era la sfida del mercato, tutti i Paesi ci hanno puntato. «Certo, ma noi più della Germania siamo stati attraversati dall’idea che il lavoro non era più il tema su cui costruire il futuro delle persone. Abbiamo teorizzato anzi che il lavoro potesse scomparire, e non a caso anche oggi c’è la tentazione di separare la cittadinanza dal lavoro. In realtà il liberismo in Italia non ha prodotto alcuna novità: ci si è illusi che il mercato potesse fare da solo. Non si è mai disegnato un nuovo tipo di società alla quale tendere: e si è visto che disastro ha combinato il mercato… ».
Non le sembra una visione troppo pessimistica? «Non credo. Siamo tra i Paesi europei quello che ha il sistema di trasporti e di integrazione sistemica più disastrato d’Europa. E si discute ancora di privatizzare o vendere quel poco di pubblico che è rimasto. Quando si ripropone la questione settentrionale si propone in realtà lo stesso schema che ci ha portato al Paese duale».
Il governo sta cercando risorse per la crescita. I partiti litigano su Imu e Iva, le imprese chiedono il taglio del cuneo fiscale: da che parte si schiera, segretario? «Intanto sono stupita di questa continua discussione sulla crisi. Era del tutto prevedibile che il 2013 avrebbe segnato un ulteriore disastro occupazionale, non c’era bisogno di un economista di grido per certificarlo. E invece si continua a discutere di cose certo importanti come l’Imu o l’Iva ma che non ci permettono di cogliere l’esigenza primaria di questo Paese: ridurre le diseguaglianze. Di qualsiasi provvedimento si discuta, la sua applicazione non potrà mai avere lo stesso effetto per chi non ha i soldi per la cena e per chi invece fa le vacanze ai Caraibi».
Si riparla però anche di abbassare le tasse tagliando la spesa… «Abbassare le tasse senza ragionare del tema delle diseguaglianze è una politica liberista peggiore di quella che ci ha portato dove ci troviamo adesso. Bisogna alzare i redditi perché così aumentano i consumi e il Paese torna a crescere».
Sarebbe una svolta per il Mezzogiorno? «Potrebbe esserlo: bisogna dare risposte ai redditi medio-bassi e impedire al Mezzogiorno di vedere triplicato il suo tesso di povertà. Ma poi: perché questa parte del Paese deve continuare a pagare tra taglio dei trasferimenti, riduzione dei servizi e disoccupazione giovanile e femminile, colpe che non sono sue?».
Torniamo all’Imu: occorre la riforma? «Solo sui possessori di prima casa e non in maniera generica. Voglio dire che una casa di lusso non può essere trattata come una di borgata. Non avendo rivisto il catasto, assistiamo a paradossi come lussuosi centri storici dove si pagano quote inferiori a quelle di rioni popolari. Poi, bisogna ricorre-re alla progressività e mi auguro che il governo dia risposte in questo senso».
Ma le imprese insistono nel dire che la priorità è invece il taglio del cuneo fiscale. «Non sono d’accordo anche se riconosco che è un’ingiustizia calcolare l’Irap in base al numero di dipendenti. Il cuneo fiscale ha messo in moto non poche risorse ma non ha prodotto nulla in termini di maggiore occupazione e di nuovi investimenti. Ragioniamo invece di come si defiscalizza e si sostiene il lavoro stabile».
È quello che si sta pensando di fare per il lavoro dei giovani? «Mi auguro che il piano del governo arrivi entro fine mese. Noi dobbiamo sostenere chi investe ma non possiamo permetterci di seguire la strada del sistema bancario che ha investito in derivati e non in titoli di Stato: le imprese devono sapere che noi siamo del tutto contrari. Insisto: dobbiamo alzare i redditi». Già, ma non è semplice. Lei da dove partirebbe? «Dalle proposte che prevedono di destinare i proventi della lotta all’evasione fiscale alla riduzione delle aliquote Irpef peri redditi più bassi. Si comincerebbero a dare risorse ai lavoratori e si alimenterebbe il contrasto all’evasione fiscale che può aiutare anche la politica: corruzione ed evasione sono freni allo sviluppo del Paese».
Ma non sarebbe meglio tagliare la spesa improduttiva? «I tagli lineari hanno già deprivato le persone di speranze e servizi. Sono sbagliati. Non si sono fatti invece tagli di qualità della spesa: una siringa è costata per troppo tempo 5 euro in una regione e 100 euro in un’altra. Per questo sono molto scettica sulle affermazioni, spesso generiche, di tagli alla spesa: proviamo a mettere ordine su come si spende, e chiediamo anche alle imprese di essere più trasparenti. Perché una col- pa ce l’hanno anche loro».
Letta parla sempre più spesso di sfida all’Europa: lei ci crede? «L’Europa ha colpe enormi in questa crisi, per questo bisogna cambiare i presupposti delle sue politiche passando dall’austerità a politiche basate sull’ espansione».
Ma questo governo resisterà ai tanti dubbi che l’accompagnano ogni giorno? «Io continuo a pensare che il Paese abbia bisogno di un cambiamento. Poi penso che bisogna fare le cose necessarie, le riforme istituzionali che ridiano certezze ai cittadini verso le istituzioni senza bisogno di stravolgere il nostro assetto costituzionale. Troppe commissioni sono un segnale di debolezza della politica».
Governo promosso o bocciato, insomma? «Per me è ancora ai test d’ingresso».