La proposta di lettura di oggi è tratta da un articolo de La Repubblica, che ci fa riflettere molto su quello che generalmente descriviamo con il concetto del peso del doppio lavoro, che continua a gravare sulla donna all’interno di una famiglia.
Ovviamente intendiamo la famiglia in senso allargato.
– Cosa possiamo fare per ricalibrare questo peso che aumenta il carico mentale con il rischio dovuto alla sindrome del burn out?
– Possiamo essere certe che nella parola inglese multitasking, che sembra rendere tutto easy, non ci sia nulla buono?
– Forse la strada della divisione e condivisione è quella da intraprendere, quella in discesa…
Buona lettura
Nel saggio “Ho scritto questo libro invece di divorziare”, Annalisa Monfreda traccia i contorni di un fardello tipicamente femminile, che influenza la vita quotidiana, le relazioni e il benessere individuale. Il primo passo per ricalibrare i pesi di questo carico e magari liberarsene una volta per tutte? “Riconoscerlo”, ci ha detto l’autrice, che, insieme alla psicoterapeuta Lucrezia Marino, ci ha aiutato a farne un identikit
Nel 1984, la sociologa francese Monique Haicault presentava al mondo, con l’articolo “La gestion ordinaire de la vie a deux, Sociologie du Travail”, il concetto di carico mentale applicato ad ambiti domestici, con il quale identificava quella particolare capacità, culturalmente ancorata all’universo femminile, di spostarsi dal piano del pensiero a quello dell’azione in moto perpetuo, gestendo tutti i livelli della vita quotidiana – la sfera individuale, relazionale, lavorativa, affettiva e, non ultima, quella logistica e puramente pratica – in simultanea, senza mai perdere pezzi, né avere l’opportunità di delegare, di cedere, di trasferirne il carico e le responsabilità correlate. Sviscerando nel profondo un concetto che, nel 2020, ha acquisito nuova linfa con le illustrazioni e il lavoro della sociologa e fumettista EmmaClit (Bastava chiedere! è il suo manifesto), il carico mentale si alimenta della pianificazione di ogni dettaglio, della previsione di ogni possibile conseguenza o scenario, della gestione di possibili criticità legate a uno degli svariati compiti che le donne, nei propri nuclei familiari, portano avanti ogni giorno. Quando il peso diventa troppo gravoso, l’impatto sulla salute mentale rischia di diventare importante.
A raccontarci i contorni culturali, sociali, antropologici e storici del carico mentale, anche e soprattutto alla luce della rivoluzione pandemica che, come aveva anticipato Helen Lewis su “The Atlantic” in tempi non sospetti, ha sacrificato in particolare l’indipendenza delle donne e rimandato “molte coppie negli anni Cinquanta”, l’11 ottobre 2022 è approdato in libreria “Ho scritto questo libro invece di divorziare. Cronaca di liberazione dal carico mentale, e altre conquiste” (Feltrinelli Urrà, 15 euro) di Annalisa Monfreda, autrice con un passato alla direzione di alcuni dei principali femminili italiani e un presente da imprenditrice dell’editoria digitale. Il libro di Monfreda è un viaggio nei meandri di un carico mentale che colpisce anche le donne più consapevoli, sbilancia persino le coppie in cui la controparte maschile è femminista e vengono cresciuti figli a suon di inclusione e parità. Il saggio è un excursus alla scoperta del carico mentale dell’autrice, appesantito dal lockdown trascorso, come milioni di famiglie italiane, tra le quattro mura domestiche con marito e figlie. “Per spiegare il carico mentale a chi non mastica il concetto”, spiega Monfreda, “uso sempre l’esempio di un pranzo. Non si tratta solo di pensare a una pietanza e cucinarla: c’è tutto un lavoro indicibile e invisibile, dietro un pasto, che richiede un incrocio di dati e informazioni, tra cui pensare a cosa si è mangiato il giorno prima, a cosa si mangerà quello dopo, valutare cosa c’è in frigo, preparare un piatto bilanciato per l’intera famiglia che ne incroci pure i gusti”.
L’esempio della preparazione del pasto non è casuale: è, culturalmente, e per abitudine interiorizzata, una delle attività che viene associate alle donne, così come svariate altre forme di accudimento in cui la controparte femmile pianifica, organizza e porta il carico psicologico di quella responsabilità e il partner, pur se efficiente, è un mero esecutore di azioni. “Ma anche questo è un modo per trattenere uomini e donne in rigidi archetipi ormai superati, che alimentano il carico mentale”, aggiunge Monfreda. “Basti pensare a quello della madre intensiva, che nasce dal femminismo degli anni Settanta: ci restituisce l’immagine di una donna che va finalmente alla conquista del mondo del lavoro e, contemporaneamente, si impone di essere una genitrice perfetta, che, nel momento esatto in cui decide di avere un figlio, deve riuscire, da sola, a far quadrare tutto, carriera e vita privata, senza mai chiedere aiuto. Il suo perfetto contraltare è il maschio in carriera, che, quando diventa padre, sente più forte il dovere di ‘provvederè alla famiglia, di fare carriera e intensificare l’impegno lavorativo per rispondere a questo richiamo quasi primordiale”.
Un altro concetto che, negli anni, ha intensificato il peso sociale del carico mentale sulle donne, è, secondo Monfreda, quello di multitasking: “Un’idea dannosa, che ci spinge a credere che la capacità del cervello di passare da una task all’altra senza mai fermarsi sia un superpotere, qualcosa a cui non rinunciare, di cui vantarsi. Diversi esperimenti scientifici recenti hanno svelato in realtà che, nel far passare la nostra mente da un pensiero all’altro, il cervello disperde energie, con pesanti influssi sul benessere psicologico e, nei più giovani, sulla capacità di apprendimento”.
Ma come si fa, in parole povere, a far capire al proprio partner o all’amica schiacciata dal peso di questo lavorìo incessante che bastava chiedere!, giusto per citare l’opera della fumettista Emma. Non è il mantra per risolvere tutto? “Nel mio caso, ha funzionato affidare a mio marito un compito alla volta, aiutandolo a sezionarlo in ogni sua articolazione, così che fosse lui a prendersene carico”, racconta l’autrice, che, nel libro, ha svelato anche come, attraverso il metodo delle tessere del gioco da tavola Fair Play, ideato dai ricercatori di Harvard, ha coinvolto anche le sue figlie pre-adolescenti nella ripartizione delle attività quotidiane. “Può funzionare in qualsiasi famiglia, applicato in modi diversi a seconda delle attitudini dei suoi membri e delle abitudini del nucleo: noi le abbiamo usate per un po’, suddividendo i compiti cui ciascuno era più affine. L’ambizione, a lungo termine, è andare a regime, interiorizzare l’abitudine a portare avanti quel compito non solo eseguendolo su ordine altrui, spesso la madre, ma in automatico”.
Riconoscere il carico mentale, secondo Annalisa Monfreda, è la parte più difficile. “Ma un libro o un articolo sul tema, una chiacchierata con un’amica, la terapia psicologica possono aiutare a vedersi da fuori, con lucidità, soprattutto se il carico mentale si fa pesante, se si comincia a vacillare. Bisogna essere indulgenti, darsi obiettivi raggiungibili, venire a patti con l’idea che siamo vittime di desideri plasmati dalla società e dai suoi stereotipi più ingombranti. Delegare o farsi aiutare dal partner sono ottimi punti di partenza ma non bastano, l’esercizio più difficile è quello della condivisione delle responsabilità”.
Quando il carico mentale porta al burn out.
Se il libro di Monfreda tratteggia il carico mentale da un punto di vista culturale e personale, rimane importante dipanare le conseguenze psicologiche cui questa ubiquità cerebrale affinata dalle donne può condurre. Secondo la psicologa, psicoterapeuta e sessuologa Lucrezia Marino (su Instagram @lumore.psi), “il sintomo più impattante dell’eccessivo carico mentale è il burn out. Il termine si riferisce a una condizione di grave stress in ambito lavorativo, quindi apparentemente sembrerebbe improprio parlare di burn out in contesto domestico. Ma in realtà” continua la dottoressa Marino “questa idea è frutto di uno stigma culturale per cui quello casalingo non è un vero e proprio lavoro, a meno che non lo si deleghi a un collaboratore pagato per ciò che fa. Il lavoro casalingo è lavoro e rimane tale anche quando ad occuparsene è un membro della famiglia, storicamente la donna”.
La sindrome da burn out ha delle conseguenze davvero impattanti sul benessere della persona. “Dal punto di vista individuale porta a sentimenti di colpa, eccessiva responsabilità, irritabilità, sensazione di estrema fatica. Possono esserci conseguenze fisiche come mal di testa, tensioni muscolari, insonnia, incapacità di sentirsi riposati. Nel tentativo di alleviare le sofferenze, si può anche arrivare a comportamenti dannosi come l’abuso di farmaci, alcol o droghe. E, ovviamente, anche i rapporti sociali ne risentono in termini di qualità”.
Il carico mentale non si fa sentire solo a causa della ripartizione incorretta o sbilanciata dei compiti della vita domestica tra partner, ma può ed è soprattutto un fardello emotivo che si porta in relazione ad amicizie (quando si tengono le redini, ad esempio, di legami e rapporti senza che dall’altro lato ci sia uguale sforzo), rapporti sentimentali e, come visto, maternità. Come si fa a smettere di perseverare in certi schemi? “È utile che ognuno di noi, in maniera non ossessiva ma sicuramente continuativa, chieda a se stesso: come stanno andando le cose? Quanto spazio sto dando al piacere e quanto al dovere? E, infine, mi piacciono le risposte che mi sto dando? Mi soddisfano? In questo modo, ci si focalizza sulla qualità delle relazioni, su come ci fanno sentire”.
Delegare non è l’unica risposta.
“Delegare” conclude la dottoressa Marino “non sempre è sufficiente perché non risolve il problema. Il burn out è dato anche dalla responsabilità che si ha nel dover tenere a mente tutto, e la delega non elude questa posizione. Spesso il desiderio è proprio quello di staccare la mente: nella mera esecuzione di un compito pratico non si avverte la pesantezza che invece è tutta su chi porta il peso del carico mentale”.
Ancora una volta la soluzione è condividere: “Alle coppie con cui lavoro, che discutono spesso su questioni legate al carico mentale, chiedo di elencare nei minimi dettagli tutti i compiti in ballo, dividendoli in base al tempo che ognuno può dedicare al lavoro domestico. Una volta che le divisioni sono state fatte e i membri sono soddisfatti, l’uno non deve più pensare ai compiti dell’altro. Questo aspetto, benché sia un’ambizione sentita molto da chi ha maggiore carico mentale, non è così automatico come sembra: anche lasciare la responsabilità, fidarsi dell’altro, è una skill che va allenata”.