Tra il 2016 e il 2021, l’estrazione di Bitcoin, la più popolare delle criptovalute, ha provocato danni ambientali per oltre 12mld di dollari con un impatto climatico simile a quello dell’estrazione del petrolio e maggiore di quello dell’oro. Lo rivela uno studio dell’Università del New Mexico, pubblicato sulla rivista Scientific Reports, che valuta l’impatto ambientale prodotto dal mining di criptovalute, una tecnica che richiede l’utilizzo di molta elettricità. Nel complesso, le emissioni del settore sono pari a quelle di un Paese come il Nepal o la Repubblica Centrafricana.
Il danno climatico sproporzionato, affermano i ricercatori, è dovuto alla PoW (proof of work), il processo informatico di verifica delle informazioni che consumano grandi quantità di elettricità. La maggior parte di questo (64%) proviene da combustibili fossili.
Si tratta di calcoli ad alta intensità energetica, tanto che nel 2020 la produzione di Bitcoin ha consumato 75,4 Terawatt (TEh). Le emissioni di anidride carbonica prodotte dal loro mining sono aumentate di 126 volte nel tempo, da 0,9 tonnellate per un singolo Bitcoin nel 2016 a 113 nel 2021 e complessivamente le emissioni prodotte tra il 2016 e il 2021 equivarrebbero al danno stimato di oltre 12 miliardi di dollari.
Correlando le emissioni prodotte con il loro valore di mercato, i ricercatori hanno stimato che a maggio 2020 il danno climatico prodotto dall’estrazione di un singolo Bitcoin ha superato il prezzo della moneta del 50%. In media, i costi ambientali rappresentano il 35% del loro valore di mercato, una cifra vicina all’impatto dell’estrazione di petrolio (41%). L’oro, a cui viene spesso paragonato il Bitcoin, ha un impatto solo del 4%.
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