L’ANGOLO LEGALE: La legge sul salario minimo ed il ruolo della contrattazione collettiva
Si parla ormai da diverso tempo della scelta di affidare alla legge il compito di determinare il tetto minimo salariale, sono ormai note le proposte di legge e lo studio dell’attuale contesto normativo europeo.
In Europa dei 27 stati membri solo Italia, Danimarca, Cipro, Austria, Finlandia e Svezia non hanno una regolamentazione che fissa un minimo retributivo legale.
In questi paesi il salario è ancora deciso dalla contrattazione collettiva, che ne determina il valore e i contenuti. Praticamente non esiste una legge sul salario minimo per i lavoratori subordinati, questo comporta che le parti rappresentative del datore di lavoro e dei lavoratori sono libere in fase di contrattazione di stabilire la misura della retribuzione da corrispondere.
L’esigenza di regolamentare la materia attraverso delle leggi specifiche è legato alla particolare fase storica, infatti stiamo assistendo ad un graduale e costante impoverimento dei lavoratori, causato dall’aumentare del costo della vita e, nel contempo, alla decrescita dei salari.
Nei mesi scorsi è arrivato il via libera della commissione lavoro del Parlamento europeo al testo della direttiva UE. La Commissione ha approvato l’accordo raggiunto tra le istituzioni per il testo che punta a fissare i minimi salariali nel rispetto delle diverse impostazioni nazionali dei paesi membri e a rafforzare il ruolo della contrattazione collettiva.
La direttiva fissa i criteri per la determinazione del salario minimo di sopravvivenza in rapporto al potere di acquisto per le famiglie. L’obiettivo perseguito dalla direttiva è quello di ridurre le disuguaglianze e limitare i contratti precari e quelli pirata, la scelta su come normare la materia sarà poi decisa dai singoli governi nazionali.
I Parlamenti europei saranno quindi chiamati nei prossimi mesi a mettere ordine alla materia attraverso l’introduzione di un salario minimo e il rafforzamento del sistema della contrattazione collettiva.
Per riassumere, la direttiva europea si prefigge di attuare una politica del lavoro volta a promuovere salari minimi adeguati nei paesi aderenti all’UE; in particolare si punta a dare centralità alla contrattazione collettiva sulla determinazione dei salari e a promuovere livelli adeguati di salari minimi legali in modo tale da garantire tutti i lavoratori.
Attualmente in Italia non è in vigore alcuna legge nazionale sul salario minimo e questo nonostante l’orientamento in tal senso da parte dell’Unione Europea. L’Italia ha scelto finora di lasciare alla contrattazione tra le parti sociali la determinazione del salario minimo da corrispondere al lavoratore. Applicare il CCNL significa di per sé definire dei parametri di paga oraria a cui attenersi a seconda delle mansioni e del livello. Da quanto detto si potrebbe dedurre che se ci si attenesse alle regole della contrattazione collettiva non ci sarebbero stipendi troppo bassi e difformi dall’orario di lavoro svolto, con il risultato che non occorrerebbe alcuna legge sul salario minimo. Invece, al contrario, è sempre più necessario un intervento legislativo al fine di contrastare il lavoro nero e l’abuso di contrattazioni ai limiti delle normative vigenti.
La garanzia a percepire una giusta retribuzione che sia proporzionata alla quantità e qualità del lavoro svolto la troviamo sancita nella nostra Costituzione all’articolo 36, si parla della necessità di percepire una retribuzione sufficiente ad assicurare al lavoratore e alla sua famiglia una esistenza libera e dignitosa. E’ evidente come i parametri previsti dall’art. 36 della Costituzione siano pensati per dar modo ai sindacati delle diverse categorie di avere margine di contrattazione all’interno dei singoli contratti collettivi di categoria. D’altra parte in Italia nel contrasto al lavoro povero è sempre stato fondamentale il ruolo delle parti sociali e, in particolare, della contrattazione collettiva. Le parti sociali svolgono una funzione di regolamentazione del mercato del lavoro attraverso la pattuizione delle tariffe collettive; la stessa giurisprudenza di solito utilizza i minimi salariali dei contratti nazionali di categoria come il parametro per determinare la giusta retribuzione.
La combinazione degli artt. 39 e 40 della Costituzione fa leva chiaramente sui contratti collettivi, considerandoli la fonte per definire i termini economici e normativi dei rapporti di lavoro.
In definitiva la contrattazione collettiva, sia di primo che di secondo livello, interpreta un ruolo fondamentale per contrastare il fenomeno della povertà nel lavoro. Quello che dobbiamo chiederci è se attualmente tutto ciò sia da solo sufficiente e idoneo a garantire una retribuzione giusta e dignitosa a tutti i lavoratori.
Attualmente vi sono delle proposte per la disciplina del salario minimo, ad esempio c’è quella dell’ex ministra del lavoro Catalfo del 2018 (propone 9 euro netti l’ora) e quella del ministro del lavoro Orlando (estensione e rafforzamento della contrattazione collettiva), attualmente sono entrambe in discussione in Parlamento.
In conclusione sarebbe opportuno recepire lo spirito della direttiva europea, dando così valore generale ai contratti nazionali in modo tale da garantire a tutti il trattamento economico minimo e tutti gli altri diritti (malattia, ferie, infortuni, ecc.). La strada da intraprendere in Italia è quella di arrivare ad una legge sulla rappresentanza, con l’obiettivo di rafforzare la contrattazione collettiva ed eliminare i cosiddetti contratti pirata. In questa ottica si potrebbe collegare il salario minimo all’attività negoziale delle parti sociali ed evitare, così, la contrapposizione tra salario minimo legale e contrattazione. L’augurio per tutti i lavoratori è quello di avviare un percorso che possa, attraverso il rafforzamento degli strumenti in essere e una specifica previsione normativa, migliorare le condizioni economiche di migliaia di lavoratori attualmente sottopagati e privi di un sistema di tutela salariale.
Gian LuigiI Ricupito