“Mal di budget” e stress lavoro-correlato in banca
“Mal di budget” ed effetti sulla salute
Cos’è il “mal di budget”? E’ una declinazione particolare dello stress lavoro-correlato che, secondo la definizione condivisa a livello europeo, è una “percezione di squilibrio avvertita dal lavoratore quando le richieste di contenuto, dell’organizzazione e dell’ambiente di lavoro eccedono la capacità individuale per fronteggiare tali richieste”.
Il lavoratore di banca – ma ormai chi lavora in genere, perché il raggiungimento del budget è ormai l’unico credo propugnato da ogni tipo di azienda – sempre più spesso dichiara di essere “stressato” (situazione che sfocia nella depressione, certificata dalla crescente quantità di ansiolitici, antidepressivi e sedute psicanalitiche alle quali i bancari fanno ricorso): i rischi psico-sociali sono ascrivibili all’organizzazione del processo lavorativo nelle banche sebbene l’Associazione Bancaria Italiana e Confindustria, in sede di Commissione consultiva per le definizione delle linee guida sullo stress, abbiano inizialmente ritenuto che tali rischi siano uno stato d’animo dei lavoratori indipendente dal lavoro (i classici “problemi che il lavoratore si porta da casa propria”).
Basti pensare che solo dal 2011 il rischio stress lavoro correlato è inserito nel Documento di Valutazione dei Rischi che i datori di lavoro devono redigere per legge.
I bancari sanno qual è il nuovo nervo scoperto del problema sicurezza: fermo restando l’importanza di altri rischi psichici e fisici (rischio rapina, adibizioni a video terminali, qualità dell’aria, microclima) è, appunto, lo stress lavoro correlato generato da rischio psico-sociale (organizzazione aziendale) la vera nuova frontiera della tutela della sicurezza del lavoratore sul posto di lavoro.
Ormai quasi tutta l’organizzazione sociale è finalizzata a “premere” sul bancario che lavora in rete per un unico obiettivo: vendere, vendere, vendere!
Ciò è dovuto all’evoluzione dell’attività di banca a causa della riduzione di profittabilità della sua attività tipica (guadagnare dal margine di interesse tra soldi prestati e soldi dei depositanti) e della trasformazione societaria delle banche; resta da capire cosa possa fare il sindacalista per aiutare il lavoratore a difendersi dalle pressioni, alla luce di una evidenza empirica: l’Organizzazione Mondiale della Sanità – non la Fisac Cgil – afferma che nel 2020 la depressione sarà la causa principale di inabilità al lavoro, mentre esiste una branca ufficiale della medicina (la neuropsicoimmunologia) che collega lo stress a malattie come ipercortisolemia, ansia, infarti, disturbi intestinali e tumori (rischio stress).
L’Art. 28 del Dgls 81/08 ha costretto l’azienda a valutare tutti i rischi pendenti sul lavoratore dunque anche la tossicità organizzativa: tra gli altri il mobbing da parte del superiore o del titolare dell’unità organizzativa, la competizione tra colleghi per la promozione, il senso di inadeguatezza causato dall’eccessiva mole di richieste e dal budget, la mancanza di strumenti formativi sufficienti a comprendere i prodotti che l’azienda chiede di vendere, la gestione del rapporto con il cliente dopo aver venduto un prodotto d’investimento rivelatosi fallimentare, la mancanza di aiuto per compiere procedure poco conosciute, l’incertezza del ruolo nei nuovi modelli organizzativi dovuta allo stratificarsi di piani industriali con misure operative spesso in contraddizione tra loro, la difficoltà di conciliazione dei tempi famiglia/lavoro.
Il rischio da stress, poi, si connota per la implicita soggettività (ciò che è stressante per un individuo può non esserlo per un altro). Paolo Pappone, psichiatra nella Asl di Napoli ed esperto in stress lavoro correlato, in una ricerca statistica pubblicata nel 2006 ha scritto che “lo stress nel lavoratore bancario deriva dal fatto che gli viene richiesta una prestazione da manager correlata ad una retribuzione da impiegato”.
L’idea che il dipendente bancario sia “imprenditore di se stesso” con un suo portafoglio di clienti è stata ormai sdoganata anche grazie alla progressiva sottoscrizione di contratti in cui pezzi crescenti di retribuzione sono stati legati alla “produzione”, cioè alla vendita di prodotti assicurativi e d’investimento: continuare su questa strada – anche alla luce del velocissimo smantellamento di sanità e welfare pubblico – non potrà che comportare un peggioramento delle condizioni lavorative, quindi del “mal di budget”.
I soggetti deputati a tutelare la salute nelle aziende e il problema di “asimmetria informativa”. Gli R.L.S.
Come si evince dall’analisi di diverse fonti legislative (Art. 2087 C.C., Art 41 Cost) i datori di lavoro dovrebbero riconoscere l’integrità fisica e morale del lavoratore, limitare la propria attività quando questa può “recare danno al lavoratore, alla sua dignità e libertà”.
La tutela della sicurezza sul posto di lavoro è stata istituzionalizzata solo con la Legge 300/70 e perfezionata a fatica con il recepimento di Direttive Europee attraverso la L. 626/94 e con Dgls 81/08: dal
momento che un “padrone” lasciato libero di fare ciò che vuole difficilmente tutelerà sua sponte il lavoratore, è stata introdotta la figura del R.L.S. (Responsabile del Lavoratore per la Sicurezza) una rappresentanza sindacale da eleggere nelle unità produttive con più di 15 dipendenti, al quale si affianca la R.S.A. (Rappresentanza Sindacale Aziendale) che sostituisce completamente il R.L.S. nelle unità produttive più piccole, accorpandone le funzioni.
Il R.L.S. incarna un ruolo ibrido: è un tecnico perché dovrebbe essere in grado di far emergere tutte le prescrizioni legislative in materia di sicurezza che il datore non rispetta, è un rappresentante sindacale perché aiuta la R.S.A. a contrattare in tema di sicurezza in occasione di rinnovi contrattuali ed è un collaboratore perché coadiuva con spirito costruttivo le funzioni aziendali nell’applicazione concreta della normativa in materia di salute e sicurezza. Non sempre gli R.L.S., data l’esiguità di mezzi e tempo a disposizione, hanno la formazione necessaria: esiste un chiarissimo problema di “asimmetria informativa” poiché, dall’altra parte, c’è il datore di lavoro che, nelle grandi aziende, si avvale di un schiera di medici e di responsabili salute protezione prevenzione (R.S.P.P.); in queste situazioni è difficile confrontare il Documento di Valutazione Rischio (D.V.R.) con il protocollo sanitario elaborato dal medico competente e, dal momento che il DVR è il documento ufficiale dal quale dovrebbero emergere tutti i rischi che il lavoratore corre, ben si comprende che l’azienda ha ampi margini di manovra per interpretare in modo non oggettivo molti rischi e addirittura escluderne alcuni.
E’ possibile entrare nelle “sacre stanze” dell’organizzazione aziendale attraverso il lavoro del R.L.S.?
Ogni lavoratore sa bene che il datore di lavoro decide l’organizzazione aziendale; se, come abbiamo visto, l’organizzazione aziendale non garantisce la tutela della salute e la dignità del lavoratore, la legge, attraverso gli RLS, mette nelle mani dei lavoratori un’arma interessante per modificarla: la violazione di precise prescrizioni di legge. Per attivare un’azione di questo tipo il R.L.S. deve:
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rilevare l’infrazione (importantissima perciò la sua formazione e quella della R.S.A.); e
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il sindacato deve essere capace di portare le eventuali istanze e proposte di cambiamento avanzate dagli R.L.S. in sede di contrattazione
La non esclusività delle decisioni del datore di lavoro riguardo all’organizzazione aziendale è tema talmente osteggiato dalle aziende che, almeno sulla carta, queste sembrano essere attentissime alla rilevazione del “clima d’azienda” attraverso questionari pilotati (spesso cestinati dai dipendenti) che periodicamente intasano le caselle di posta aziendali dei lavoratori: è sintomatico che non vogliano concordare le domande di questi questionari con gli esperti sindacali!
I grandi gruppi bancari Unicredit ed Intesa Sanpaolo (che il 7 Ottobre ha firmato un contratto aziendale che prevede un accordo sulle pressioni commerciali) hanno ammesso che le pressioni esistono – quindi, se esistono, sono continuamente infrante norme italiane ed europee in tema di salute e sicurezza – ma arrogano a se stesse le modalità operative per limitazione tali pressioni, proprio perché non è ammesso che i lavoratori, attraverso i sindacati, possano finanche pensare di poter modificare anche modicamente l’organizzazione d’impresa.
La forza del RLS, infatti, sta in ciò: questo rappresentante dei lavoratori può, in forza di un potere conferitogli dalla legge, rivolgersi alla Asl competente sul territorio quindi alla Procura della Repubblica, se la sua controparte (che è il datore di lavoro con autonomia di spesa e non gli organi tecnici di cui costui si circonda per farsi aiutare) non ha eliminato ogni rischio incombente sul lavoratore, quindi il rischio psico-sociale, quindi, al limite, la “pressione commerciale” per la vendita di prodotti. Sarebbe perciò auspicabile che, in sede di trattativa, i delegati particolarmente preparati in materia di sicurezza e salute siedano di fronte a controparte insieme con gli altri rappresentanti sindacali della delegazione trattante per concludere accordi in cui sia eliminato il rischio psico-sociale ascrivibile alla tossicità organizzativa.
La realtà dei fatti e le azioni da intraprendere
Nella trattativa per i rinnovi contrattuali, le associazioni sindacali hanno proposto un modello di vendita di prodotti finanziari che è stato bocciato dai datori di lavoro: eliminare i fattori stressogeni dalla vendita significherebbe ridurre significativamente le vendite (magari limitando i budget) e ciò, per le banche, non è possibile perché attualmente una parte consistente di utili è costituita da commissioni; firmare gli accordi che sono stati firmati, d’altra parte, significa acconsentire a tamponare il problema del “mal di budget” a valle, quando immancabilmente si presenta.
Ma l’inadempienza rispetto alla valutazione dello stress da parte dell’azienda o lo sbaglio nella valutazione dello stress è una responsabilità penale in base a sentenza della Corte di Cassazione del 03/07/2013: probabilmente il peccato originale è stato
lasciare che parti sempre più cospicue di salario disponibile siano agganciate al sistema incentivante – come successo in tutti gli altri settori economici -; ciò ha portato all’esasperazione del meccanismo perverso di quel sistema: farsi “spremere” di più per guadagnare di più, quindi monetizzare la salute.
In una economia di mercato fortemente sostenuta da budget pubblicitari imponenti, ci si può opporre alle vendite per eliminare il rischio psico-sociale? D’altra parte non esiste alcuna normativa che vieti al datore di lavoro di stabilire budget di vendita; sta ai Sindacati verificare se il raggiungimento del budget sia ottenuto attraverso pressioni (per esempio minacce di cambi di mansione e demansionamento) anche perché se il lavoratore bancario ha il dovere di fornire il proprio contributo in modo professionale con la diligenza richiesta dalla natura della prestazione dovuta, non ha obbligo di risultato perché non è lavoratore autonomo (obbligazione di mezzi).